di Charlie Post


Pubblichiamo il contributo del compagno Charlie Post sulla questione dello Stato e della lotta per il potere. Quest’articolo, uscito in origine qui, aggiunge un tassello a un percorso di ricerca sul problema dello Stato, ciò che lo caratterizza e la sua funzione sociale che avevamo iniziato con l’articolo di Antonello Zecca del 20/04/2020. Ringraziamo i compagni e le compagne di Sinistra Anticapitalista per la traduzione, che potete trovare anche qui.

Nell’odierno mondo capitalistico c’è una chiara polarizzazione politica1. Siccome le politiche neoliberali continuano a provocare un abbassamento della qualità della vita e delle condizioni di lavoro per la maggioranza degli abitanti del mondo, sempre più alternative radicali si sono guadagnate un’attenzione di massa. L’alternativa dominante è stata incarnata dal populismo di destra che etichetta sia le “élites globali” (con gli ebrei in testa) sia immigrati, persone razzializzate, donne e persone LGBTQ come egualmente responsabili per l’attuale crisi sociale. Le sconfitte delle lotte di massa e il fallimento di governi dichiaratamente di sinistra nell’impresa di porre fine all’austerity, specialmente in Grecia, hanno demoralizzato molte persone e hanno favorito l’estrema destra. Ciononostante, stiamo anche assistendo alla rinascita di una sinistra socialista di massa, anche se politicamente eterogenea, in tutto il mondo capitalistico. Negli Stati Uniti, la gigantesca crescita dei Democratic Socialists of America (DSA) ha fatto del socialismo una piccola ma significativa forza politica per la prima volta in più di quarant’anni.

Siccome un significativo anche se ristretto nucleo di lavoratori e lavoratrici si sta nuovamente rivolgendo a un’alternativa socialista al capitalismo, abbiamo assistito a una rinascita delle discussioni sulle modalità di organizzare la transizione al socialismo – una rinascita cioè del dibattito sulla strategia socialista2. Sfortunatamente, molte/i hanno presentato questo dibattito come una contesa tra difensori di una via “democratica” e difensori di una via “insurrezionale” al socialismo. Secondo me, invece, questo dibattito, che rivisita i temi-chiave discussi da Kautsky, Lenin, Trotsky, Luxemburg e altri/e nel movimento socialista pre-1914 non è tra “democratici” e “insurrezionalisti”. Da un lato ci sono quei compagni e quelle compagne che credono che la classe lavoratrice e gli oppressi possano usare, nella sua totalità o in parte, lo Stato democratico capitalista per abolire il capitalismo e costruire una società socialista. D’altra parte ci sono quelli che, come me, credono che l’attuale Stato capitalista sia fondamentalmente antidemocratico e che non possa essere permeato e modellato secondo i fini dei lavoratori e delle lavoratrici. Al contrario, lo Stato capitalista deve essere smantellato (abbattuto) e sostituito con delle istituzioni politiche nuove e radicalmente più democratiche, che siano espressione della classe operaia e del potere popolare.

Queste strategie sono, in maniera implicita o esplicita, basate su differenti teorie dello Stato capitalista. Come vedremo, non c’è una corrispondenza esatta tra le teorie dello Stato e la strategia socialista – e molti a sinistra hanno difeso delle teorie che sono in contrasto con la loro prassi politica. Ciononostante, diverse letture del modo di organizzarsi per superare il capitalismo sussumono diverse concezioni delle relazioni tra lo Stato, l’accumulazione capitalistica, la competizione e la lotta di classe. Questo saggio esamina i pilastri teoretici delle differenti strategie socialiste al fine di determinare non solo la loro coerenza logica, ma anche la validità delle concezioni del capitalismo e dello Stato capitalista su cui si basano. Solo una tale valutazione di queste teorie ci permetterà di capire se le strategie che esse informano sono irrealizzabili o no.

Riformismo classico

La strategia politica basata sul riformismo classico, portata avanti sia dai partiti socialdemocratici dopo il 1914 sia dai partiti comunisti dopo il 1945, privilegia politiche elettoralistiche. Questa strategia sancisce che non appena un partito socialista inizia il proprio mandato grazie alle elezioni, dovrà portare avanti una serie di riforme politiche ed economiche. Politicamente, un governo socialista dovrebbe tentare di democratizzare lo Stato esistente – per esempio, introducendo una rappresentanza proporzionale nella costruzione delle legislature e facendo sì che l’esecutivo risponda direttamente all’organismo legislativo. Da un punto di vista economico, i socialisti in carica dovrebbero rafforzare i diritti sindacali, attuare progetti che estendano lo stato sociale, nazionalizzare alcuni settori industriali e adottare politiche fiscali e monetarie per promuovere la crescita economica, la piena occupazione e un innalzamento degli stipendi. Secondo alcuni riformisti, specialmente quelli nei Partiti Comunisti, queste riforme politiche ed economiche favorirebbero una graduale transizione al socialismo. Per altri, in particolare quelli di matrice socialdemocratica, le riforme garantirebbero un effettivo bilanciamento tra gli interessi del capitalismo e quelli della classe operaia, una crescita economica stabile e dei miglioramenti duraturi nel tenore di vita dei lavoratori3.

La strategia riformista classica deriva da quella che è stata chiamata “teoria strumentalista dello Stato capitalista”. Spesso questa teoria non è presentata esplicitamente, ma è piuttosto integrata con analisi empiriche e storiche. Una attenta lettura dell’opera di sociologi radicali come C. Wright Mills e G. William Domhoff, o delle prime opere del marxista Ralph Milliband4 ci permette di identificare l’elemento chiave delle loro teorie: lo stretto legame personale, economico e ideologico-politico tra i capitalisti e i dirigenti statali determina la natura di classe delle istituzioni statali. I capitalisti posseggono il potere economico, derivato dal loro possesso dei mezzi di produzione. Il ruolo dei dirigenti statali nelle istituzioni dà loro il potere politico – cioè l’abilità di prendere e di sostenere delle decisioni politiche. I capitalisti diventano così la classe dominante da un punto di vista economico e politico attraverso i loro legami con i dirigenti statali, attraverso donazioni in occasione delle campagne elettorali, la partecipazione diretta dei capitalisti al governo, il potere dei gruppi di pressione e l’introduzione di piattaforme di programmazione politica sponsorizzate dalle grandi aziende, che riducono lo spazio del dibattito politico ordinario a delle opzioni accettabili dai capitalisti. In sintesi: lo Stato capitalista è uno strumento neutro che può essere utilizzato da svariate forze sociali, a seconda di chi vi occupa le istituzioni vitali. Secondo questo punto di vista, se la classe operaia a i suoi rappresentati politici riuscissero a destituire i dirigenti statali legati al capitale, lo Stato potrebbe diventare uno strumento per promuovere riforme stabili o per favorire una graduale transizione al socialismo.

Molti membri della nuova sinistra socialista hanno compreso che la classica strategia socialdemocratica conduce a un vicolo cieco. Possiamo citare ad infinitum degli esempi che testimoniano come le elezioni di governi riformisti abbiano condotto a una capitolazione e a un abbandono di riforme di fronte alla resistenza dei capitalisti (Mitterrand in Francia nei primi anni Ottanta, l’ANC in Sud Africa dal 1994, il MAS in Bolivia dal 2006, e più recentemente Syriza in Grecia nel 2016). Questi pesanti fallimenti hanno aperto le porte alla repressione capitalista del movimento dei lavoratori (Spagna ‘36-‘39, Cile ‘70-‘73, Venezuela al giorno d’oggi). Questa strategia ha fallito, non soltanto a causa della mancanza di impegno dei politici socialdemocratici, ma anche perché è basata su una concezione utopica della relazione dello Stato capitalista con il processo di accumulazione e con la lotta di classe5.

Da un lato, le leggi del moto del capitalismo – specialmente le dinamiche di redditività e competizione – limitano fortemente lo spazio di azione di qualsiasi governo nel quadro del capitalismo6. L’abilità del capitale di rifiutare ogni nuovo investimento di fronte alle politiche del governo che riducono la redditività o minacciano la competitività è di solito sufficiente a garantire il fallimento dei riformisti. Inoltre, se un governo fosse impegnato in una serie di riforme radicali e le implementa nonostante la resistenza economica capitalista, la struttura delle istituzioni dello Stato capitalista permetterebbe ad essa di trascendere le strutture governative elette e di usare l’esercito e la polizia per annientare violentemente ogni minaccia alle sue regole7. In sostanza, lo Stato capitalista non è uno strumento neutro che sia i capitalisti sia i lavoratori e le lavoratrici possono usare per i loro obiettivi diversi nonché antagonisti.

Alternative al riformismo

Per buona parte del Ventesimo secolo si sono configurate due alternative strategiche al riformismo classico di stampo socialdemocratico. La prima è stata una delle tante varianti di quello che Hal Draper chiama “socialismo dall’alto”, dove una sedicente avanguardia rivoluzionaria armata distrugge lo Stato in quel momento esistente e stabilisce una dittatura a partito unico che governa nel nome della classe operaia. Questa alternativa dovrebbe essere un anatema politico per la nuova sinistra socialista. Questa strategia rafforza l’equazione di senso comune tra il socialismo e il dominio della classe burocratica, difende regimi che erano destinati al fallimento in termini socioeconomici, e fa della rivoluzione un atto volontaristico di un’élite armata e non un’attività autorganizzata e democratica della classe operaia. Questa strategia ha ovunque indotto la sinistra ad adattare la sua attività ai bisogni politici e diplomatici degli stati che pretendono di difendere il socialismo, ma che in realtà lo minacciano. In breve, il rivoluzionario “socialismo dall’alto” – lo stalinismo – non è solo un vicolo cieco, ma è una bancarotta morale e politica8.

L’altra alternativa al riformismo, la quale, in verità, non ha riscosso grande sostegno dalla classe operaia dopo gli anni ’30, è il socialismo rivoluzionario dal basso9. Riconoscendo lo Stato come meccanismo del dominio capitalistico, i socialisti rivoluzionari affermano che solo l’auto-organizzazione indipendente dell’azione delle lavoratrici e dei lavoratori può ottenere delle riforme nel quadro del capitalismo o addirittura trascenderlo grazie a una rivoluzione. L’affidamento alle solite azioni di negoziazione collettiva, l’attività di pressione e l’elezione di candidati favorevoli alla classe operaia raramente permette di ottenere riforme durature o significative. In generale, le lotte diffuse e dirompenti – scioperi di massa, occupazioni, etc. – permettono ai lavoratori di alzare il costo della resistenza capitalistica e di obbligare i capitalisti a fare delle concessioni, anche se solo temporanee, ai lavoratori e alle lavoratrici10.

Il superamento del capitalismo richiederà l’abbattimento delle istituzioni dello Stato capitalista. Questa strategia è spesso resa oggetto di caricatura: si immagina un elementare confronto frontale tra una fazione rivoluzionaria antigovernativa e uno Stato capitalista monolitico. In realtà, i rivoluzionari si sono spesso organizzati all’interno dello Stato capitalista. Non solo essi partecipano alle elezioni, principalmente per promuovere le lotte popolari, ma hanno cercato di costruire organizzazioni indipendenti di impiegati statali e di soldati, per sfidare la cosiddetta legittima autorità dei loro superiori. Per dirla in altro modo, i rivoluzionari provano a promuovere una diffusa insubordinazione allo Stato. In un contesto rivoluzionario, i comitati di dipendenti pubblici e di soldati potrebbero contestare la disciplina attuata dai burocrati statali non eletti, dagli ufficiali militari, nonché l’abilità del capitale, quando i suoi meccanismi vanno in cortocircuito, di sviare o reprimere la lotta popolare. Assieme ai comitati eletti nei luoghi di lavoro e alle comunità, essi sono la base di uno Stato democratico e radicalmente alternativo – che può abbattere lo Stato capitalista attualmente esistente, e in particolare le sue essenziali istituzioni repressive.

Teorie dello Stato

Se Marx e Lenin formularono gli elementi-chiave di questa strategia, essi non presentarono esplicitamente una teoria dello Stato capitalista né ne La guerra civile in francia né in Stato e Rivoluzione. Negli anni Settanta e Ottanta, i marxisti Joaquim Hirsch e Nicos Poulantzas11 elaborarono teorie struttural-relazionali dello Stato capitalista che giustificano la lettura strategica di tipo rivoluzionario. Il lavoro di Hirsch comincia con la discussione che Marx fa ne Il Capitale delle leggi del moto del capitalismo per fornire una concezione chiara della relazione dello Stato coi processi capitalistici di accumulazione, competizione e crisi. Il lavoro di Poulantzas, che si concentra sulla relazione delle classi sociali e delle loro lotte con gli apparati dello Stato capitalista, presenta però un maggior numero di problemi. Come sottolinea Simon Clarke, per il primo Poulantzas «la rivoluzione viene fatta dallo Stato (con la comparsa di una nuova forma di Stato che presagisce la comparsa di un nuovo modo di produzione) e non dall’attività delle classi subalterne»12. In ogni caso, credo che ci siano dei nuclei teoretici che possono essere estrapolati dal lavoro di Poulantzas e che devono aiutarci a comprendere lo Stato capitalista.

Lo Stato capitalista non è, come qualcuno ha affermato, un insieme vagamente interconnesso di istituzioni caratterizzato socialmente dai legami sociali dei suoi dirigenti, ma è invece una forma feticizzata della relazione sociale tra capitale e lavoro. Lo Stato capitalista funziona come una sfera di autorità pubblica separata istituzionalmente dalla sfera privata dello sfruttamento e dell’accumulazione. I capitalisti non necessitano dello Stato per rafforzare il proprio dominio economico sulla classe lavoratrice. In realtà, la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche ha luogo in prima istanza attraverso le mere costrizioni dei mercati – una persona si sottomette alla disciplina in vigore sul suo posto di lavoro perché ha bisogno di lavorare per pagare le bollette e per comprare del cibo. La coercizione politico-giuridica diretta non è solitamente necessaria per sottomettere i lavoratori allo sfruttamento capitalista. L’autonomia relativa dello Stato capitalista dall’accumulazione fa sì che i capitalisti posseggano la fondamentale capacità di imporre una disciplina allo Stato attraverso il rifiuto di accettare nuovi investimenti [attività conosciuta col nome di capital strike o investment strike, ndt] ed altre simili politiche. Questa separazione strutturale tra ambito politico e ambito economico che avviene nel quadro del capitalismo limita severamente le politiche economiche degli stati capitalisti – e nessun governo socialista può utilizzare le istituzioni statali esistenti per abolire la legge del moto del capitale.

Lo Stato capitalista è esso stesso la cristallizzazione delle relazioni di classe capitalistiche, e cioè del dominio del capitale sulla classe operaia. Per parafrasare Poulantzas, lo Stato capitalista serve ad organizzare la lotta di classe del capitale per poi disorganizzare quella della classe operaia. Per tenere unita la classe dei capitalisti, lacerata dalla competizione, lo Stato capitalista deve essere relativamente autonomo da qualsiasi individuo o gruppo (frazione) di capitalisti. Alcuni segmenti di capitale, specialmente nella versione democratica dello Stato capitalista, possono avere degli stretti legami con dei dirigenti statali o con delle frazioni di apparati statali. In ogni caso, lo Stato nel suo insieme ha una certa autonomia che fa sì che esso possa fornire il contesto istituzionale per superare le divisioni e per creare un consenso all’interno della classe dei capitalisti.

Le relazioni gerarchico-burocratiche che contrassegnano le istituzioni dello Stato capitalista – dalle cariche elette a quelle civili e militari non elette – assicurano la disorganizzazione della classe operaia. I lavoratori e le lavoratrici compaiono nello Stato capitalista in una tra due possibili modalità. Da un lato, essi sono considerati come individui atomizzati con diritti di tipo giuridico-legale soggetti al dominio burocratico e gerarchico del capitale attraverso la cosiddetta Rule of Law13 [sistema di regole che disciplina il potere pubblico, ndt]. Dall’altro, essi sono un’entità corporata rappresentata dai dirigenti ufficiali (i burocrati della classe operaia, dirigenti professionisti dei gruppi oppressi), i cui interessi sono presumibilmente bilanciati con quelli delle altre entità (businessmen, consumatori, il pubblico, etc.)14. In nessuno dei due casi i lavoratori e le lavoratrici sono presenti nello Stato capitalista come forza collettiva capace di intralciare le regole del capitalismo. In ogni caso, il prezzo dell’ammissione per la rappresentanza entro lo Stato capitalista è l’astensione dalle forme organizzative che permettono ai lavoratori di esercitare il potere – forme di lotta di massa, socialmente perturbanti, e di solito illegali.

I rapporti di forza concreti tra capitale, classe operaia ed oppressi/e modellano, in base al contesto storico, le differenti forme dello Stato capitalista – democrazia parlamentare, dittatura militare, dispotismo civile (bonapartismo) e fascismo15. Comunque, di per sé stesse, nessuna di queste forme, comprese le istituzioni più democratiche dello Stato capitalista, può essere utilizzata dalla classe operaia per assicurare riforme solide o per cominciare una transizione verso il socialismo. Poulantzas, nonostante il suo successivo tentennamento strategico, è stato abbastanza chiaro su questa questione:

Lo Stato non è un’entità con un’intrinseca essenza strumentale, ma è esso stesso una relazione, più precisamente la condensazione di una relazione di classe. Questo implica che […] il dominio politico è esso stesso legato all’esistenza e al funzionamento dell’apparato statale. Ne consegue che una trasformazione radicale dei rapporti sociali non può essere limitata in un cambiamento del potere statale, ma deve rivoluzionare gli apparati stessi. Nel processo della rivoluzione socialista, la classe lavoratrice non può limitarsi a prendere il posto della borghesia nella gestione del potere statale, ma deve anche trasformare radicalmente (“abbattere”), gli apparati dello Stato borghese per poi sostituirli con un apparato di Stato proletario16.

Dominio cristallizzato del capitale o sito di lotta?

Sia nel dibattito storico che in quello contemporaneo sullo Stato capitalista e sulla strategia socialista, alcuni compagni/e hanno cercato una “via di mezzo tra le strategie classiche e riformiste e quelle rivoluzionarie. Alcuni/e oggi guardano agli scritti di Karl Kautsky per pensare una transizione al socialismo che combini come elementi di eguale importanza la conquista del potere nello Stato capitalista attraverso le elezioni e la costruzione di organi di potere popolare nei posti di lavoro e nei quartieri per supportare un governo socialista con le sue politiche anticapitaliste17. Sia Ralph Milliband sia Poulantzas, nonostante le acute differenze teoretiche a proposito dello Stato capitalista, abbracciarono una strategia nel genere alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta18.

Più di recente, Michael McCarthy19 ha tentato di elaborare e di aggiornare la posizione di Poulantzas nella sua analisi dello Stato capitalista di matrice democratica. Nella sua versione della teoria, le istituzioni dello Stato democratico capitalista non sono né semplici strumenti utilizzabili dal capitale o dalla classe operaia, né un «monolite» che è «impenetrabile» da lavoratori e lavoratrici. Invece, lo Stato democratico capitalista è presentato come «un insieme di istituzioni tra loro vagamente interconnesse considerabili come luoghi di lotta» la cui relativa autonomia da «una qualsiasi classe specifica o da una frazione di classe»20 lo rende utilizzabile contro i padroni non appena i lavoratori e le lavoratrici riescano ad acuire le contraddizioni tra le funzioni statali nel loro compito di garantire l’accumulazione e la sua legittimità. Una volta riconosciuti i vantaggi del capitale nel contesto delle relazioni con le istituzioni dello Stato democratico capitalista, i lavoratori e le lavoratrici possono esercitare la propria forza attraverso politiche che rafforzino la loro posizione nei confronti del capitale, sia attraverso le vittorie elettorali sia attraverso l’organizzazione di massa, le quali possono condurre, in particolari congiunture storiche, a una transizione al socialismo.

Credo che questa strategia sia in realtà incompatibile con la concezione delle istituzioni statali capitaliste, ivi comprese quelle democratiche, come materializzazione dei rapporti di classe capitalisti. Invece, con essa si torna indietro a un implicito strumentalismo secondo cui la classe lavoratrice può, in realtà, usare dei segmenti dell’apparato dello Stato democratico capitalista per condurre delle riforme favorevoli alla classe operaia e iniziare così una transizione al socialismo. In entrambe le conclusioni del lavoro di Poulantzas, Stato, Potere, Socialismo e del recente contributo di McCarthy c’è un surrettizio slittamento concettuale. La concezione dello Stato capitalista come forma dell’istituzionalizzazione della relazione sociale tra capitale e lavoro viene riportata in auge, e la variante democratica dello Stato capitalista diviene un luogo di lotta tra classi sociali. Nella formulazione originale, la forma gerarchica e burocratica delle istituzioni dello Stato capitalista facilita la riproduzione del dominio del capitale sulla classe operaia organizzando il capitale e rendendo disorganizzata la classe operaia. Nelle formulazioni successive, invece, le istituzioni statali divengono un terreno di gioco relativamente neutro su cui la classe operaia, attraverso i propri partiti politici e le organizzazioni di massa come i sindacati, può appropriarsi di parti dell’apparato statale per assicurarsi delle solide riforme e per guardare al socialismo.

L’idea per cui le istituzioni dello Stato capitalista sono un sito di lotta confonde la lotta per i diritti democratici e le riforme favorevoli alla classe operaia con la difesa delle istituzioni dello Stato democratico di matrice capitalista. Chiaramente, i rapporti di forza in una società modellano la forma dello Stato capitalista. Non c’è dubbio che le lotte dei lavoratori hanno luogo su un terreno molto diverso e più ricco di vantaggi se vengono garantite le libertà democratiche (libertà di parola, diritto di organizzarsi, etc) che sotto le diverse forme di dittatura capitalista. Inoltre, è assolutamente vero che le lotte della classe operaia possono obbligare i capitalisti e lo Stato a garantire riforme che migliorino la vita dei lavoratori e delle lavoratrici e accrescano la loro capacità di lottare21.

In ogni caso, sia i diritti democratici che le riforme di una certa importanza favorevoli alla classe lavoratrice sono raramente, per non dire mai, ottenute tramite le istituzioni vigenti dello Stato capitalista. Negli USA, le lotte che ottennero riconoscimento sindacale, che posero fine alla segregazione legalizzata, e che crearono ed espansero politiche welfaristiche richiesero tutte l’infrazione della legge su larga scala22.

Il record storico

La storia del ventesimo secolo vede la classe lavoratrice e gli oppressi smettere di impegnarsi in insurrezioni di massa e cercare di raggiungere i propri obiettivi attraverso le istituzioni dello Stato capitalista – attraverso l’elezione di persone con delle buone idee, l’attività di pressione, la partecipazione alle agenzie statali e la contrattazione collettiva a livello dello Stato. Usando solo questi mezzi essi furono incapaci sia di vincere sia di difendere riforme ad essi favorevoli.

La dinamica della diminuzione delle mobilitazioni e del riflusso non è accidentale, ma deriva dall’istituzionalizzazione statale del dominio del capitale sulla classe operaia. Il prezzo dell’ammissione in un luogo interno alle istituzioni dello Stato capitalista per i rappresentanti della classe operaia e degli oppressi e delle oppresse è l’accettazione delle regole del gioco delle istituzioni politiche vigenti. Nonostante ci siano modalità concrete con cui questi rappresentanti possono alimentare le lotte della classe operaia, le regole del gioco impongono comunque il rispetto della legge, che di solito riduce l’abilità delle lavoratrici e dei lavoratori di dare vita a importanti fenomeni di lotta.

Tutto ciò può essere verificato persino in un periodo non rivoluzionario – gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando al movimento operaio statunitense fu offerto un posto al tavolo dell’apparato dello Stato capitalista23. Sia all’AFL che al CIO venne data rappresentanza in un insieme di agenzie governative vigenti in tempo di guerra e che si occupavano di una vasta gamma di compiti, tra cui l’allocazione degli operai nelle industrie di guerra (Office of Production Management), la regolamentazione degli stipendi, il numero di ore e le condizioni di lavoro (War Labor Board). Il prezzo da pagare fu la rinuncia all’arma più potente in mano ai lavoratori – il diritto allo sciopero. La burocrazia della classe operaia pensava che la loro partecipazione all’amministrazione statale dell’economia di guerra avrebbe dato il via a un processo di democratizzazione dell’economia statunitense, in cui i sindacati avrebbero avuto un ruolo permanente nell’amministrazione dell’economia e in cui lo Stato avrebbe protetto i lavoratori attraverso politiche sociali universali. In realtà, la partecipazione della classe operaia a queste agenzie statali in tempo di guerra foraggiò la burocratizzazione dei nuovi sindacati industriali, che diventarono un sistema di giurisprudenza industriale basato sulle vertenze, le quali rimpiazzarono le azioni di sciopero in seguito a problemi sul posto di lavoro.

Siccome l’attivismo in fabbrica, la base fondamentale del potere operaio, fu soffocata, il movimento operaio in tutte le sue componenti ne uscì indebolito. La classe operaia non ebbe dunque alcun ruolo pubblico nella produzione, e il capitale riuscì a portare avanti degli investimenti privati senza alcun ostacolo, a prendere il controllo dei processi produttivi e ad indebolire sostanzialmente i diritti legali dei sindacati attraverso il Taft – Hartley Act. Al posto di un sistema sanitario universale, di un sistema previdenziale che avrebbe potuto fornire a tutti i pensionati un’entrata adeguata e di programmi di edilizia pubblica, la classe operaia statunitense fu costretta a negoziare un welfare privato in cui la salute dei lavoratori e le pensioni erano soggette alla redditività degli imprenditori, e ad accettare un programma fortemente razzializzante di proprietà individuale della casa perorato a livello federale. Quando il boom del dopoguerra si esaurì alla fine degli anni ’60, il movimento operaio si dimostrò incapace di difendere le vittorie degli anni ’30. La serie di sconfitte che iniziò negli anni Settanta e Ottanta, risultato diretto della fiducia che la classe operaia ripose nella partecipazione delle istituzioni dello Stato capitalista in tutto il mondo, ha aggravato la passività e il cinismo (le solide basi della legittimazione capitalistica) e ha spianato la strada all’estrema destra populista.

La rivoluzione e lo Stato

Se le strategie che si affidano a una lotta nei limiti delle istituzioni dello Stato capitalista sono vicoli ciechi quando gli obiettivi sono l’ottenimento e la difesa delle riforme in regime capitalistico, esse sono ancora meno efficienti come vie al socialismo. Il fallimento delle strategie riformiste classiche e dei tentativi di trovare una terza via tra riforma e rivoluzione è radicato, in ultima analisi, nel carattere utopico di una strategia basata sull’appropriazione di tutto o di parte dello Stato capitalista da parte di lavoratori e lavoratrici. La vera struttura dello Stato capitalista – la sua autonomia relativa dall’accumulazione e la sua struttura burocratico-gerarchica – lo rende l’istituzionalizzazione del dominio del capitale sulla classe operaia, e dunque, in ultima istanza, un ostacolo agli obiettivi e alle aspirazioni della classe operaia.

Uno strenuo difensore della cosiddetta via di mezzo tra la riforma e la rivoluzione potrebbe rispondere che gli organi di potere popolare sui posti di lavoro e nei quartieri popolari potrebbero, in un contesto rivoluzionario, tenere a bada la resistenza capitalista tramite l’amministrazione statale e l’esercito, senza un assalto frontale a queste istituzioni. In realtà, gli organi del potere popolare e della classe operaia dovrebbero agire in sostituzione dello Stato per bloccare effettivamente la resistenza capitalistica tramite l’apparato burocratico e l’esercito. I consigli di lavoratori e quelli pubblici, tra cui quelli che rappresentano i dipendenti statali, dovrebbero sostituire (e possibilmente fermare) gli apparati di Stato esistenti, mentre i consigli dei militari dovrebbero sfidare l’autorità degli ufficiali. In breve, gli organi del potere popolare dovrebbero assaltare frontalmente le istituzioni nevralgiche dello Stato capitalista e rimpiazzarle con uno Stato operaio basato sulle forme più raffinate dell’autorganizzazione della classe operaia – i consigli dei lavoratori. Se un governo così radicalmente socialista non perorasse queste tattiche – che richiederebbero un confronto armato con lo Stato capitalista vigente – esse sarebbero ridotte all’amministrazione del capitalismo e dell’austerità così come hanno fatto i socialdemocratici per generazioni. Il rifiuto di Salvador Allende e dei quadri del Partito Socialista e del Partito Comunista di affrontare una situazione del genere ha reso i lavoratori impreparati al colpo di Stato dell’11/09/1973.

La strategia socialista

Chiaramente, oggi non siamo nel contesto di una rivoluzione in nessuna parte del mondo in cui vige il capitalismo avanzato – nonostante la legittimità delle istituzioni politiche di matrice democratico-capitalistica non sia così stabile quanto alcuni hanno dichiarato. Inoltre, abbiamo visto pochissime crisi rivoluzionarie a tutti gli effetti sotto il capitalismo avanzato – e tra esse le più importanti sono state in Germania 1918-1923, in Spagna 1936-1939, e in Portogallo 1974-1975. Al giorno d’oggi il compito della sinistra socialista è la ricostruzione di una minoranza militante di lavoratori capace di promuovere lotte indipendenti e un’azione politica che configurerà in senso socialista il senso comune di uno strato significativo di lavoratori e lavoratrici. In questo compito, coloro che tra di noi difendono una strategia socialista rivoluzionaria troveranno un’intesa maggiore coi compagni che cercano una terza via tra riforma e rivoluzione. Che ciò consista nella costruzione di una base di organizzazioni operaie nei sindacati esistenti e nei luoghi in cui i lavoratori non sono organizzati, o nell’organizzazione di proteste contro l’internamento dei migranti nei campi di concentramento, o nella difesa del diritto di abortire, possiamo lavorare assieme per resistere alle pressioni dei riformisti mirate alla limitazione delle mobilitazioni usando metodi elettoralistici e rispettando le norme del capitale.

In ogni caso, la nostra differente concezione del capitalismo, della lotta di classe e dello Stato capitalista può influire sul modo in cui affrontiamo queste lotte. In particolare, avremo bisogno di decidere se cercare delle alleanze a lungo termine con le forze riformiste (la burocrazia della classe lavoratrice e delle ONG, i cosiddetti democratici progressisti), che si affidano allo Stato esistente, nel contesto della lotta quotidiana. Ci impegneremo nell’organizzazione continua e indipendente di militanti di base capaci di agire indipendentemente da, e, se necessario, in opposizione alle forze del riformismo ufficiale? Daremo priorità alle campagne elettorali il cui scopo principale è limitato all’assegnazione di una carica? O cercheremo di organizzare campagne elettorali che promuovano le lotte sociali, che richiederanno un’organizzazione politica indipendente? Queste sono le questioni fondamentali con cui oggi dobbiamo confrontarci – e le risposte che daremo saranno modellate dalla nostra concezione teoretica e strategica della strada al socialismo.


Note

1Ringrazio i compagni che mi hanno fornito un resoconto su una versione precedente — David Camfield, Todd Gordon, Kate Doyle Griffith, Zach Levinson; e ai partecipanti alla mia riunione “Socialism 2019.

2Vd., tra i vari contributi recenti: Vivek Chibber, “Our Road to Power,” Jacobin, December 5, 2017, www.jacobinmag.com/2017/12/our-road-to-power; Charles Post, “What Strategy for the US Left?” Jacobin, February 23, 2018, www.jacobinmag.com/2018/02/socialist-organization-strategy-electoral-politics; James Muldoon, “Reclaiming the Best of Karl Kautsky,” Jacobin, January 5, 2019, www.jacobinmag.com/2019/01/karl-kautsky-german-revolution-democracy-socialism?fbclid=IwAR3z6h0Xf99cTkbeTcfrlbnu7JBcLOPcTN6I-Hk_yZLr8bKBlqxajF2rFoo; Charles Post, “The ‘Best’ of Karl Kautsky Isn’t Enough” Jacobin, March 9, 2019, www.jacobinmag.com/2019/03/karl-kautsky-socialist-strategy-german-revolution; Eric Blanc, “Why Kautsky Was Right (and Why You Should Care),” Jacobin, March 2, 2019, www.jacobinmag.com/2019/04/karl-kautsky-democratic-socialism-elections-rupture; Sotiris Panagiotis, “The Strategic Question Revisited: Ten Theses,” Socialist Project: The Bullet, May 23, 2019, https://socialistproject.ca/2019/05/the-strategic-question-revisited-ten-theses/.

3The most recent, coherent presentations of the classic reformist strategy are from the “Eurocommunist” Parties of the 1970s. See Santiago Carillo, “Eurocommunism” and the State (London: Lawrence & Wishart, 1977) and G. Nepolitano, The Italian Road to Socialism: An Interview with Eric Hobsbawm (Westport, CT: Lawrence Hill, 1977).

4C. W. Mills, The Power Elite (New York: Oxford University Press, 1956); G. William Domhoff, Who Rules America? The Triumph of the Corporate Rich (New York: McGraw Hill, 2014); Ralph Miliband, The State in Capitalist Society (New York: Quartet Books, 1973).

5Vd. Robert Brenner, “The Paradox of Reformism: The American Case,” in M. Davis, F. Pfeil, e M. Spinker, eds., The Year Left: American Socialist Yearbook, vol.1 (London: Verso, 1985).

6Vd. F. Block, “The Ruling Class Does Not Rule: Notes on the Marxist Theory of the State,” Socialist Revolution 33 (May–June 1977).

7Ralph Miliband, “The Coup in Chile,” in R. Miliband and J. Saville, eds., Socialist Register 1973 (London: Merlin Books, 1973).

8Charlie Post, “Actually Existing ‘Socialism’—A Critique of Stalinism,” New Socialist, February 16, 2018, https://newsocialist.org/actually-existing-socialism-a-critique-of-stalinism/.

9Karl Marx, The Civil War in France (1871), www.marxists.org/archive/marx/works/1871/civil-war-france/index.htm; V. I. Lenin, The State and Revolution: Marxist Theory of the State and the Tasks of the Proletariat in the Revolution (1917), www.marxists.org/archive/marx/works/1871/civil-war-france/index.htm; E. Mandel, “Socialist Strategy in the West,” in Revolutionary Marxism Today (London: New Left Books, 1979).

10Brenner, “The Paradox of Reformism”.

11J. Hirsch, “The State Apparatus and Social Reproduction: Elements of a Theory of the Bourgeois State,” in J. Holloway and S. Picciotto, State and Capital: A Marxist Debate (London: Edward Arnold, 1978); Nicos Poulantzas, “Social Classes and their Extended Reproduction,” in Classes in Contemporary Capitalism (London: New Left Books, 1975).

12“Marxism, Sociology and Poulantzas’s Theory of the State,” in Simon Clarke, ed., The State Debate (London: Palgrave MacMillan, 1991), 103; also available at https://libcom.org/files/statedebate.pdf.

13Nicos Poulantzas, State, Power, Socialism (London: New Left Books, 1978), 49–75. V. anche P. Anderson, “The Antinomies of Antonio Gramsci,” New Left Review vol 1, no. 100 (November 1977–January 1978), 42–45.

14Leo Panitch, “The Development of Corporatism in Liberal Democracies,” Comparative Political Studies vol 10, no. 1 (1977).

15Vd. Nicos Poultantzas, Fascism and Dictatorship: The Third International and the Problem of Fascism (London: New Left Books, 1974).

16Nicos Poulantzas, Classes in Contemporary Capitalism (London: New Left Books, 1975), 26.

17Vd. Blanc, “Why Kautsky Was Right.”

18Nicos Poulantzas, “Toward a Democratic Socialism,” in State, Power, Socialism; Ralph Miliband, Marxism and Politics (London: Oxford University Press, 1979).

19Michael A. McCarthy, “Seven Theses on the Capitalist Democratic State,” Verso blog, https://www.versobooks.com/blogs/4308-seven-theses-on-the-capitalist-democratic-state.

20McCarthy, “Seven Theses”.

21Leon Trotsky, “What Next?: Vital Questions for the German Proletariat,” in The Struggle Against Fascism in Germany (New York: Pathfinder Press, 1970).

22Frances Fox Piven and Richard A. Cloward, Poor People’s Movements: Why They Succeed, How They Fail (New York: Vintage Books, 1977); M. Goldfield, “Worker Insurgency, Radical Organization, and New Deal Labor Legislation,” American Political Science Review vol. 83, no. 4 (December 1989).

23Nelson Lichtenstein, Labor’s War at Home: The CIO in World War II (New York: Cambridge University Press, 1982).

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