di Marsia Comparoni – Planet2084


Pubblichiamo questo contributo per stimolare una discussione collettiva e pubblica sul concetto di oppressione. Seguiranno altri contributi sul tema.

Siamo tanti, dispersi, frammentati anche quando siamo a milioni accalcati nello stesso spazio, parliamo tutte le lingue del mondo e abbiamo strumenti diversi. Gli oppressi. Parola passata di moda. Viviamo un’epoca in cui l’oppressione è un termine usato per lo più in ambito psicologico e si cura con farmaci o colloqui clinici. Con questi strumenti in generale si tende a rendere sopportabile il peso che molte persone portano sul petto, limitando il danno e imparando a gestire con maggiore comodità le asperità, quel tanto che basta per respirare e risalire nella giostra condivisa del benessere. Oppressione è anche un termine che indica una condizione politica, spirituale e economica della popolazione, ma questa accezione non è più molto usata né tantomeno messa in correlazione con il significato psicologico.  

Da un punto di vista bioesistenziale, l’ob pressione, la pressione esercitata contro, secondo il significato etimologico del termine, può essere considerata una condizione psicofisica attraverso cui l’Io sente di essere schiacciato. Il corpo segnala attraverso il sentire (quel feeling che deriva dalla qualità e direzione delle tensioni muscolari) lo stato di schiacciamento che riproduce a livello corporeo di una situazione che può essere fisica o spirituale. E che il cervello codifica e che l’unità psicofisica dell’Io processa. Questo schiacciamento può derivare da tanti fattori. Le discipline scientifiche che si occupano della salute dell’essere umano si sono spartite gli ambiti di studio e di intervento delegando questa sintomatologia alla psichiatria e alla psicologia (quando non è legata a problematiche dell’apparato respiratorio o cardiaco che in questo caso competerebbe alla medicina). La causa è riscontrabile in qualche evento della vita personale, nella sua sfera sociale (problematiche lavorative per esempio), logistica (cambiamenti in corso) e per lo più della sfera intima sentimentale o sessuale. Ma non è mai l’economista a registrare questi dati. Se non come incidenza sul mercato. Come non è l’economista che si occupa delle malattie respiratorie. Stentano ad essere legittimate anche le equipe sanitarie (medico, psicologo, assistente sociale ecc.) come potremmo pensare ad una lettura congiunta addirittura con altre discipline del sapere?

Perché mai poi l’economista dovrebbe occuparsi di oppressione o di malattia? E lo psicologo di oppressione politica?

Forse perché la condizione di oppressione è connaturata ai rapporti di forza tra le classi sociali nell’organizzazione economica della società. Forse perché la qualità dell’aria, del cibo, dei luoghi di lavoro, della sanità che sta alla base dei processi eziopatogenetici è strettamente connaturata al sistema economico!

Se l’oppressione dell’uomo sull’uomo risale agli albori della storia, il tempo pare aver cristallizzato questo parametro come intrinsecamente connaturato con la vita in una sorta di ineluttabilità della realtà differenziata delle classi sociali piuttosto che considerarlo uno stato primitivo della coscienza. Come il leone si nutre della gazzella, le gemme sbocciano a primavera, esistono i potenti e i diseredati, gli sfruttatori e gli sfruttati, i carnefici e le vittime, i forti e i deboli. I ricchi e i poveri in cui i primi basano la loro ricchezza sullo sfruttamento e oppressione dei secondi che sono la quasi totalità della popolazione mondiale. La modernità presunta della società capitalistica non ha rinunciato alle oppressioni arcaiche e ne ha create di nuove!

L’oppressione di genere (subordinazione della riproduzione sociale alla produzione per il profitto). L’oppressione razziale. L’oppressione dei nativi che abitano zone del pianeta utili al profitto capitalistico e che per questo motivo vengono sottomessi, utilizzati, sfruttati, uccisi, come avviene ogni giorno alle popolazioni del Sud Africa, dell’Amazzonia ecc. Milioni di persone oppresse dalle guerre e costrette a lasciare la loro terra per subire soprusi e violenze anche altrove. L’oppressione degli animali, materia prima gratuita di guadagno, al

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levati come cibo in una visione finalistica che li considera destinati per natura a questo scopo.

Quanta alienazione possiamo sopportare?

Se Marx individua nei rapporti capitalistici di produzione il nucleo dell’estraniazione del lavoratore da sé stesso, da un punto di vista esistenzialista possiamo definire alienato ogni individuo, indipendentemente dalla sua professione, che sotto la spinta del conformismo, delle pressioni sociali, delle motivazioni provenienti dall’esterno va incontro ad un processo di separazione da se stesso, dalla parte più profonda del Sé.

Da questo punto di vista è chiaro che noi umani e gli altri animali abbiamo un livello di sopportazione elevato, considerando la nostra capacità adattiva.

La vita dell’operaio appartiene all’oggetto prodotto, ma anche la vita del compratore appartiene all’oggetto del mercato che pare restituirgli senso. Compro dunque sono. In questo riverbero di costruzione di senso la sottrazione di un Sé originario non sembra un problema, perché non lo si percepisce come tale. Né l’oggetto che acquistiamo porta con sé i segni dello sfruttamento del lavoro, o lo stigma dell’inquinamento che ha contribuito a produrre e che produrrà (impressionante e sconosciuto l’impatto ambientale che ha la produzione di un paio di jeans!).

La vita che il lavoratore ha dato all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea [1] è un concetto estendibile anche al compratore, per tutti i motivi che la storia fin qui ci ha insegnato più uno. Uno che non era visibile fino alle nuove generazioni. Lo sfruttamento della forza lavoro si somma ad un altro livello di sfruttamento. Quello smisurato, legittimato, pantagruelico delle risorse del pianeta che sono state privatizzate come fosse giusto e sfruttate come come fossero illimitate. L’aria, le sostanze del sottosuolo e del suolo, l’acqua, sono state sfruttate non dall’umanità ma da una piccola enclave di umanoidi che ha prevalso, e che si autotutela con la forza. La metà più povera della popolazione sopravvive con l’1% delle risorse e la forbice di divergenza tra ricchi e poveri si allarga progressivamente; immutabilmente le condizioni socioeconomiche si tramandano di generazione in generazione, i ricchi sono figli dei ricchi e i poveri sono figli dei poveri.

L’uso della forza lavoro di uomini e donne avviene puramente a scopo di profitto e non dell’aumento del benessere globale. L’uso delle risorse del pianeta come materia prima a costo zero, compresi gli animali, segue gli stessi principi economici. Lo sfruttamento della forza lavoro si somma allo sfruttamento incondizionato delle materie prime, con l’ausilio di chi le usa.

Lavoratori e consumatori, entrambi privati di un senso di partecipazione sensata e universale all’organizzazione sociale, all’autodeterminazione dei popoli, alla razionalizzazione delle risorse, ad un’economia della cooperazione ugualitaria, ad una gestione pubblica lungimirante degli approvigionamenti di cibo, acqua, energia, sono ridotti a poco più che automi.

L’oppressione – da quella dell’operaio in fabbrica, a quella dell’aborigeno dell’amazzonia, a quella dei migranti – è una condizione di malessere in cui vertono miliardi di persone nel mondo perché hanno perso la capacità di cooperare per una visione evolutiva collettiva.

Molti disagi quotidiani anche nella società del benessere hanno una matrice nella perdita di senso della propria vita, nella deprivazione di ogni valore che non rientri nei canoni del mercato. Per fare un esempio anche la libertà sessuale diventa un vessillo di cui si appropria il capitale: ogni inclinazione sessuale, non importa moralmente quale, purché possa diventare una nicchia di mercato!

I tentativi in direzione dell’autodeterminazione dei popoli dall’imperialismo transnazionale vengono repressi con grande facilità. Solo limitatamente alle popolazioni amazzoniche negli ultimi mesi gli assassinii di cui si è avuto notizia sono decine. Ogni giorno si legge in qualche trafiletto in basso nelle pagine internazionali dei quotidiani la notizia di attivisti uccisi. Ne riporto qualcuna. Adan Vez Lira, attivista messicano, difensore di ecosistemi, che si opponeva ad un impattante progetto minerario nell’area di La Mancha, un luogo dove attualmente alcune compagnie stanno realizzando miniere in pieno contrasto con le idee degli ambientalisti, colpito da 9 colpi di arma da fuoco. Come gli altri 86 attivisti messicani uccisi negli ultimi anni[2]. Paulo Paulino, capo indios che proteggeva la foresta in Amazzonia; solo nel 2019 in Brasile sono state uccise dalla polizia 1546 persone scomode[3]. In Venezuela la guerra dell’oro massacra gli indigeni che tentano di opporsi[4].

Altrove, nell’Occidente evoluto i sistemi di livellamento sono più sofisticati. A questo sono servite, per lo più, le discipline psicologiche.

Pare esserci un limite, dunque, alla sopportazione. E forse questo inciampo della pandemia del 2020 potrebbe aprire un varco di coscienza nella visione del quotidiano. Un esempio fra tanti: due mesi in cui milioni di persone hanno potuto sopravvivere senza comprare l’eccesso sono la dimostrazione che si può fare! C’è un momento in cui l’alienazione e l’oppressione si fanno visibili. In cui diventa visibile anche quel macro-livello insopportabile al senso comune, la consapevolezza, cioè che il Covid19 nasce in un contesto storico ed economico che lo produce. Si sa che la deforestazione è una delle maggiori cause dello spillover tra animali e uomo e che l’inquinamento atmosferico è un medium del virus. E forse proprio questo rischia di diventare un punto limite alla sopportazione. Il punto in cui come le nostre nonne Clodette Colvin e Rosa Parks ci rifiutiamo di cedere il posto ad un ordine prestabilito di legittime ingiustizie e devastazioni.

Dalla pagliuzza alla trave

Se non ci fosse bastato Chernobyl o Fukushima, in tempo di pandemia abbiamo un’altra folgorante manifestazione che ogni evento è globale (se una farfalla batte le ali a Pechino… a New York arriva la pioggia) e tutti gli elementi planetari sono interdipendenti, umani, vegetali, animali, minerali ecc. È diventato chiaro, grazie all’eloquenza dei rappresentanti istituzionali che hanno esercitato una funzione pedagogica, che un singolo individuo (per esempio il signor Mario Rossi), per suo personale sfizio, prendendosi la briga di fare una passeggiata in tempo di pandemia è responsabile di innescare conseguenze nocive non solo per sé ma anche per gli altri. Il runner rincorso con l’elicottero appare evidentemente come il nemico che mette in pericolo la salute pubblica. E a parte questi frangenti iperbolici è stato generalmente condiviso il senso di responsabilità individuale rispetto alla collettività. Il problema è che questa coscienza rischia di fermarsi alla soglia del naso, alla soglia cioè della percezione visiva microscopica, in cui è visibile solo una pagliuzza, mentre la visione macroscopica della trave sui propri occhi rischia di perdere i contorni. Tanto per citare giornate che a breve rischiano di essere rimosse, mentre da una parte si dà la caccia al passeggiatore solitario stiamo vedendo la casta industriale lombardo-veneta tenere alti i propri interessi, alla faccia della perdita della salute pubblica dell’intero paese! Oltre alle centinaia di migliaia di aziende rimaste aperte, duecentomila hanno riaperto in deroga malgrado il lockdown e altre apriranno in questi giorni per scongiurare la repressione.

Se il signor Rossi può essere ben identificato come trasgressore e attentatore della salute pubblica, magari ad opera di delatori che lo hanno avvistato dalla finestra, non sono altrettanto visibili e denunciabili il signor Ferrero, il signor Del Vecchio e il signor Pessina che in 3 sono più ricchi di 6 milioni di poveri messi insieme e basano la loro ricchezza sullo sfruttamento dei poveri[5]. Se ci spostiamo a livello mondiale un’èlite di 2153 miliardari nel mondo detiene un patrimonio superiore a 4,6 miliardi di persone. Alla metà più povera della popolazione resta l’1%.

I due livelli non sembrano interconnessi. Non solo sul piano formale, legale e politico, ma anche percettivo individuale. Accade nella coscienza collettiva una sorta di shift tra parametri di valore. Riconoscibile il danno del ladro che scassina una serratura e entra in una proprietà privata, ma non altrettanto visibile il danno che per aumentare il profitto l’imprenditore può fare all’umanità, per esempio sversando in mare i residui tossici delle lavorazioni chimiche, o nell’aria tonnellate di CO2.

L’assuefazione al pensiero unico, come l’innalzamento delle soglie percettive per il principio di abituazione, rende invisibili le contraddizioni insite nell’organizzazione capitalistica. Non è più illogica una questione quando sta in piena regola sotto gli occhi di tutti.

Per cui è più facile che la percezione del rischio trasformi gli esseri umani in delatori e psicopoliziotti piuttosto che in esseri coscienti della portata macroscopica delle contraddizioni. Interessante a tale proposito la citazione che la giornalista Enrica Parrucchietti fa nel suo blog[6] degli esperimenti di psicologia di Milgram, che negli anni ’60 studiò il livello di obbedienza di persone a cui veniva ordinato di fare del male ad altri con l’elettroshock, dimostrando che le persone comuni dietro agli ordini impartiti da una persona autoritaria arrivano a fare del male ad un altro essere umano fino al punto di ucciderlo. L’obbedienza all’autorità pare essere radicata in noi proprio a partire dallo stato infantile di sottomissione al governo dell’autorità genitoriale. La banalità del male direbbe Hanna Arendt.

Ma sono anche tanti altri i motivi per cui la trave non è visibile. E che impedisce di gioire di fronte alla dimostrazione che si può vivere anche senza fare shopping. Ed è il lavoro. I profitti a discapito della salute pubblica e del senso di equilibrio planetario non sono visibili perché i signori del profitto

danno lavoro a migliaia di persone e quindi fanno mangiare altrettante famiglie.

Allora c’è da capire che cosa possa significare transizione. Cosa possa significare unire le lotte e portarle ad un livello politico più avanzato di quello riformistico per sovvertire il modo di produzione capitalistico sostituendolo con quello ecosocialista, femminista e internazionalista. Come rendere possibili cambiamenti epocali come la conversione delle fabbriche, la chiusura degli allevamenti, la ridistribuzione delle risorse. E come poterlo fare nell’unico modo possibile cioè attraverso la Sovranità della classe lavoratrice.

La parola ai lavoratori: l’esempio dei gruppi omogenei degli anni 60

Da una battaglia congiunta della medicina preventiva e del lavoro e dell’attività dei sindacati negli anni del boom economico italiano nacquero buoni strumenti di studio, monitoraggio e trasformazione degli ambienti di lavoro all’epoca in cui parlare di rischio era ancora più difficoltoso di adesso. I gruppi omogenei riuscirono ad essere riconosciuti come strumenti legittimi di confronto.

Erano gli anni ’70 quando si cominciava a parlare di morti colorate (i tumori della vescica da coloranti organici), di tumori al fegato tra i lavoratori del cloruro di vinile monomero e delle malattie dopo l’esplosione al reattore dell’ICMESA di Meda (1976) e questi gruppi di confronto hanno contribuito a dare dignità scientifica alle osservazioni dei lavoratori.

 “Il gruppo omogeneo è un gruppo di lavoratori che si trova ad operare nelle stesse condizioni di lavoro, magari da 20, 30, 40 anni e che quindi conosce a fondo queste condizioni, tutto quello che è successo ai compagni di lavoro e di che cosa si sono ammalati. È il lavoratore competente che sa insegnare al medico onesto e competente dove sono i punti critici. Da questa interazione nasce il concetto di non delega, cioè di non delega al medico burocrate, al medico di fabbrica, la gestione della salute. Il medico deve prima imparare dall’enorme esperienza di vita dell’utente”; dall’intervento del prof Franco Berrino: Dall’ascolto alla partecipazione: il laboratorio del cittadino competente.[7]

Questo modulo organizzativo consentiva ai lavoratori che eseguivano mansioni analoghe, di incontrarsi e nel dialogo dei gruppi omogenei si scopriva che ciò che poteva sembrare un problema strettamente personale legato a fattori esterni era invece presente in altri lavoratori del gruppo, e si collegava in un inquadramento unitario la condizione lavorativa e l’insorgenza del malessere e delle patologie. Si innalza insieme al livello della salute, il livello della consapevolezza e della conoscenza del lavoro. Questi gruppi omogenei avevano il grande pregio di rappresentare uno strumento utile per i lavoratori e di arricchimento per l’azienda che poteva avvantaggiarsi della competenza dei dipendenti anche per migliorare le performance se ne aveva la lungimiranza.

A oggi, nel tardo capitalismo, sulla soglia della Sesta Estensione planetaria a causa della distruzione consumistica per la produzione di profitto, il Capitalocene si profila come l’ultima manifestazione umana di barbarie. L’unica possibilità di sopravvivenza umana collettiva consiste nella trasformazione totale dell’organizzazione economica in senso socialista. Tra questa consapevolezza e la condizione contingente dei lavoratori c’è però un gap che sembra incolmabile. Un baratro fatto di date di rientro in fabbrica, in ufficio. Perché i piccoli imprenditori giustamente vogliono riaprire il ristorante, il negozio, l’impresa edile, lo studio. E il debito pubblico graverà su noi, che siamo la società. E saremo impegnati a sopravvivere. Ma ogni volta che penso al salto nel vuoto della transizione mi vengono in mente i gruppi omogenei. Perché, tolta la cappa del profitto privatizzato, solo i lavoratori delle ferrovie sono esperti di come potrebbero funzionare efficientemente i trasporti, in quali tratte e a quale velocità. Solo i medici, gli infermieri, il personale sanitario sa, se non viene scientemente impedito loro il confronto su larga scala, cosa serve nelle corsie. Non per migliorare l’efficienza delle cliniche private ma per sostituirle. Non lo possono fare i dirigenti delle cliniche private e i loro politici.  È dal confronto fra economisti, biologi, agricoltori che si può pianificare cosa, come e dove seminare il grano sufficiente a sfamare tutto il pianeta, non lo può fare la Monsanto. Sono i lavoratori che possono ridistribuire l’acqua, pensare grandi opere idriche, pianificare cosa serve per vivere, indicare una direzione.


Note

[1]   K.Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1968, p. p.168.

[2] https://www.peopleforplanet.it/messico-ucciso-un-altro-attivista-ambientalista/

[3] https://www.possibile.com/in-brasile-la-polizia-ha-ucciso-1546-persone-in-un-anno-e-a-nessuno-sembra-interessare/

[4] https://www.avvenire.it/mondo/pagine/la-guerra-delloro-massacro-di-indigeni-in-amazzonia

[5] https://www.ilsole24ore.com/art/l-italia-disuguaglianze-3-miliardari-piu-ricchi-6-milioni-poveri-ACIWc4CB?refresh_ce=1

[6] https://enricaperucchietti.blog/2020/03/23/dalla-cieca-obbedienza-alla-delazione-come-la-paura-ci-trasforma-in-psicopoliziotti/

[7] http://www.inmarcia.it/DOC/Volume_stressLC/Treno_carico_di_stress_Cap_1-3.pdf

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