di Antonello Zecca – Sinistra Anticapitalista
Riceviamo e pubblichiamo questo interessante testo che, a nostro avviso, ha il merito precipuo di mettere all’ordine del giorno una serie di problemi fondamentali nella lotta per una società ecosocialista. Problemi che si potrebbero sintetizzare schematicamente a partire da una domanda, che è poi la domanda: in che modo «una classe già prima di andare al potere può essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche “dirigente”»?
Senza voler rispondere in questa sede – anzi riservandoci che il testo che presentiamo qui sia l’occasione per un dibattito pubblico, collettivo, che coinvolga quanti più militanti possibili – ci preme provare a indicare una serie di spunti che a nostro avviso questa domanda apre.
Innanzitutto la definizione dinamica di quella che nel testo viene chiamata la «relativa autonomia» dello Stato. Ossia il fatto che lo Stato, in quanto cristallizzazione a livello «etico-politico» dei rapporti sociali esistenti, non è un semplice strumento, ma è piuttosto la manifestazione fenomenica della capacità dirigente di una classe sulla società.
Capacità che a sua volta si esplica sia organizzando permanentemente il consenso corazzandolo, se serve, di coercizione, sia (ma la differenza è puramente “di comodo”) costruendo un senso comune relativamente omogeneo.
Qui sarebbe necessario aprire un capitolo tanto sulle possibilità di una spontaneità critica e quindi rivoluzionaria delle masse (spontaneità che però dev’essere educata: il partito come pedagogo della classe), quanto all’esistenza di quelle che approssimativamente si potrebbero chiamare “strutture mentali”, ossia “forme automatiche” di reazione nei confronti dei fatti del mondo, che guidano gli individui e della società in modo automatico.
Non solo. Il problema della summenzionata coercizione, ci porta a dover considerare la forma specifica in cui i rapporti coercitivi oggi si manifestano. Rapporti che definiscono quella che, con Colin Crouch e Michele Nobile (ma non solo loro), potremmo definire “post-democrazia”: il tendenziale svuotamento del carattere rappresentativo delle istituzioni democratico-borghesi e quindi il tendenziale superamento delle configurazioni politiche liberal-democratiche.
C’è però chi si spinge più in là, parlando di “capitalismo del controllo” o “della sorveglianza”. Ne capiamo le ragioni ma la categoria non ci convince. Ci pare infatti che in realtà la tensione verso forme massicce di coercizione sia sempre una tensione contraddittoria, che si scontra cioè con la necessità del capitale di non avere vincoli o limiti. Sia che esso si muova “all’interno” dello spazio statale-nazionale, sia che si proietti verso l’“esterno” (lo scontro tra capitali nazionali e l’imperialismo).
Altri a cascata sono i problemi che dovremmo quanto meno menzionare. Tuttavia preferiamo lasciare spazio direttamente al testo. Chiudiamo perciò limitandoci a sottolineare un ultimo tema. Nell’ultimo capoverso dell’articolo il lettore troverà un riferimento all’ormai più che centenaria domanda “riforme o rivoluzione?”.
L’autore giustamente pone la questione da un punto di vista tattico-strategica. Tuttavia crediamo che si possa sviluppare anche l’altro corno del ragionamento, quello legato al tema la crisi e alle «temporalità discordi» dello sviluppo sociale. Se, per dirla con Benjamin al «tempo vuoto e omogeneo» si deve opporre quello pieno dell’atto politico, al chronos il kairos, allora la rivoluzione può forse essere vista proprio così: come un evento processuale o un processo evenemenziale che si apre nel e a partire dal fluire lineare dei «tempi di stabilità politica e sociale». Il problema è aperto.
Come costruire un nuovo senso comune, ossia un “uomo nuovo”, come modificare le “strutture mentali” diffuse, come suscitare il consenso nei confronti di un cambiamento radicale dell’esistente tra i membri della propria classe di riferimento e delle classi alleate (e quindi condurre una lotta di egemonia contro le classi avversarie), come ripensare il processo rivoluzionario… questi e tanti altri sono i problemi della lotta politica (e culturale). In generale e, per quanto ci riguarda, della lotta politica anticapitalista.
Per questo ci auguriamo che, come detto in incipit, questo testo sia la prima di una serie di riflessioni, il primo passo nella direzione di un ampio dibattito pubblico, in grado, se non di risolvere, quanto meno di gettare le basi della soluzione ai problemi che il movimento rivoluzionario si trova a fronteggiare.
Fine dell’introduzione
In questa triplice crisi (sanitaria, economica, ambientale), c’è un aspetto che emerge con forza e che è centrale in ogni seria strategia di rottura con l’ordine esistente: la natura dello Stato capitalista (borghese).
Normalmente celato sotto la coltre dell’illusione neutralista, le crisi quanto più sono profonde tanto più diradano questa coltre e chiarificano le caratteristiche fondamentali di questo Stato.
Le classi dominanti non sono un blocco monolitico. Hanno bensì una composizione stratificata in settori, filiere e rami di industria, ciascuno dei quali è a sua volto composto da capitali “individuali” (con un grado maggiore o minore di centralizzazione).
In buona sostanza, la classe possidente (capitalista) è fatta di diverse frazioni, ciascuna delle quali con i suoi propri interessi immediati, non necessariamente coincidenti e anzi spesso in contraddizione gli uni con gli altri.
Non è un caso che esistano le associazioni padronali, che hanno il compito di provare a comporre gli interessi spesso divergenti dei propri associati e promuoverne quelli generali. Tuttavia, data la dinamica di movimento propria del modo di produzione capitalistico, sono i capitali più grandi a prevalere, senza peraltro riuscire questi ultimi ad armonizzare i rispettivi interessi.
L’illusione della neutralità dello Stato rispetto alle classi fondamentali, e dunque della possibilità di instaurare per suo mezzo una formazione economico-sociale basata su presupposti e una (auto)organizzazione interna radicalmente alternativa a quella attuale, nasce dalla sua autonomia rispetto alle singole frazioni del capitale.
L’autonomia (relativa) dello Stato nasce cioè dalla necessaria separazione di società politica e società civile, senza la quale non potrebbe svolgere la sua funzione essenziale di garante della riproduzione dei rapporti sociali capitalistici.
E’ esattamente per mezzo di questa autonomia che lo Stato può andare anche contro gli interessi immediati di questa o quella singola frazione del capitale al fine di garantire la sopravvivenza della società del Capitale nel suo complesso.
Se i singoli capitali non possono che guardare alla necessità per loro tanto vitale quanto immediata di sopravvivere in quanto capitale sul mercato e quindi essere “ciechi” rispetto alle esigenze di riproduzione sociale complessiva, lo Stato ha il “distacco” necessario a poter operare invece tenendo presente gli interessi generali della classe capitalistica, e dunque della continuazione della società di cui essa è espressione dominante.
L’autonomia relativa dello Stato gli consente anche di poter fare talvolta concessioni favorevoli alla classe salariata attraverso la necessaria lotta di quest’ultima per misure e riforme ad essa favorevoli, ma è questo a generare precisamente l’illusione di poterne utilizzare le strutture al fine di avanzare una politica socialista, «se solo ne conquistassimo il potere» (cioè, nella vulgata dominante a sinistra, il governo tramite elezioni).
Ora, è indubbio che la conformazione stessa dello Stato, con l’autonomia relativa che ne deriva, consente spazio alla lotta politica (più o meno democratica a seconda delle circostanze concrete) anche di interessi divergenti e alternativi a quelli dei capitali e del Capitale nel suo complesso, e, il maggiore o minor successo di questa lotta politica dipende dai rapporti di forza sociali che le classi producono di volta in volta nel corso della loro lotta.
Ma migliorare i rapporti di forza a proprio vantaggio serve alla classe salariata per poter avanzare in termini di organizzazione e consapevolezza, di essere meglio preparati, cioè, alla lotta per la conquista del potere.
Quest’ultima non è riducibile a una contesa elettorale e alla conquista del governo (benché, sempre a seconda delle circostanze concrete) questi aspetti possano e a volte debbano essere inclusi come passaggi nella lotta per il potere, ma è lo sforzo di rompere il monopolio del potere della classe capitalista che si esercita precisamente per mezzo del suo Stato, che, con la divisione in apparati burocratici sottratti inevitabilmente al controllo democratico e la garanzia di mantenimento della separazione dei produttori diretti (i salariati e le salariate) dai mezzi di produzione, comunicazione, scambio, è strutturalmente e irriformabilmente organo di riproduzione dei rapporti sociali del Capitale, e dunque inutilizzabile agli scopi della classe salariata.
La classe salariata non può dunque utilizzare lo Stato capitalista nella transizione all’(eco)socialismo ma deve creare il suo proprio organo politico e istituzionale, adatto a gestire rapporti sociali in cui saranno i produttori associati a decidere per chi, cosa, come e quanto produrre, utilizzando lo strumento della pianificazione democratica.
In fondo, la differenza tra “riformisti” (anche quelli più coerenti, sinceri e conseguenti) e “rivoluzionari” sta tutta qui: è praticamente irrilevante e scarsamente visibile in tempi di stabilità politica e sociale in cui la lotta della classe salariata si sviluppa in un clima di “pace sociale”; diventa strategicamente molto rilevante in una fase di profonda crisi e instabilità politica e sociale, in cui si assiste a un’acutizzazione della lotta di classe che, come nei tempi che stiamo vivendo, assume i connotati di una questione di “vita o di morte”.