Intervista a: Michael Löwy

 Il fascismo e la crisi ecologica si inaspriscono in tutto il mondo. In questa intervista, il pensatore militante ed ecosocialista Michael Löwy spiega come la convergenza delle forze in campo anticapitalista potrebbe aiutarci a superare le sfide che ci attendono.

di Sabrina FERNANDES

 

La pandemia di coronavirus si è presentata come una sfida globale e ha messo in luce le enormi disuguaglianze che esistono tra i diversi paesi, disuguaglianze che vanno dall’accesso a un sistema sanitario equo e di qualità ai diversi approcci alla pandemia secondo i governi di turno al potere. Le crisi sono inevitabilmente legate ai confini per la loro natura internazionale e per le dinamiche economiche e geopolitiche che generano contese su progetti e risorse tra i diversi Paesi. Non è possibile parlare, ad esempio, della crisi in Venezuela senza considerare gli elementi esterni al Venezuela. Il bolsonarismo non può essere compreso senza notare l’influenza ideologica della destra americana e le dinamiche di smantellamento e privatizzazione in Brasile che piacciono a una borghesia internazionale.

L’imminente catastrofe ecologica che, seppur sia qualcosa di più vasto del cambiamento climatico, trova in esso il suo più grande catalizzatore, ci spinge a mettere in campo la nostra capacità di mobilitarci contro il capitalismo e le sue false soluzioni, perseguendo allo stesso tempo l’autonomia dei popoli oppressi. Questa conversazione con Michael Löwy, militante e intellettuale ecosocialista, illumina le possibili vie d’azione.

 

SF – Michael, vorrei iniziare con una piccola discussione su come si pone la questione dei confini nel contesto specifico del 21° secolo. Sembra che i cambiamenti climatici a volte mostrino la natura artificiale dei confini tra i paesi. Altre volte però mostrano quanto siano importanti in relazione alla disputa geopolitica sulle possibili direzioni del pianeta.

 ML – In effetti, la crisi ecologica e il cambiamento climatico non conoscono confini. Ecco perché l’internazionalismo, l’organizzazione di un movimento planetario contro l’oligarchia fossile e, in definitiva, contro il sistema capitalista -che è, come riconosce Papa Francesco, intrinsecamente perverso -sono più che mai decisive.

Ciò non impedisce alle potenze capitaliste, mentre promuovono la globalizzazione neoliberista, attivamente stimolate dalla Banca Mondiale, dal FMI e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio -tutte impegnate nell’industria dei fossili e nell’ecocidio –di contendersi i diversi settori del mercato mondiale per imporre la loro egemonia imperiale. La verità è che stiamo assistendo a un nuovo fenomeno, il «nazional-liberismo», con Donald Trump, Bolsonaro, Shizo Abe in Giappone, Boris Johnson e altri, che proclamano allo stesso tempo un nazionalismo aggressivo e un neoliberismo brutale, senza che ciò si riveli contraddittorio. Nonostante i confini siano sempre più artificiali, i diversi governi delle potenze imperialiste cercano con ogni mezzo di costruire muri, barriere con filo spinato elettrificato, e installare pattuglie di polizia per impedire l’accesso di immigrati disperati che cercano di fuggire dai loro paesi per poter sopravvivere. Non aveva forse spiegato Marx che il sistema capitalista non può esistere senza forme di dominio violente e barbare?

 

SF – È interessante, perché la destra liberale, che ha contribuito a rafforzare figure come Bolsonaro, ora finge di essere diversa. Ad esempio, nella misura in cui l’estrema destra mostra questa forte impronta nazionalista e di conservatorismo sociale, i liberali cercano di prendere le distanze dall’immagine negativa di Bolsonaro. Ma sappiamo che in realtà non hanno alcun problema a continuare a sostenere le politiche di Paulo Guedes, nel caso essi ritornino nuovamente dentro l’Esecutivo. Come hai detto, questo collegamento non è affatto contraddittorio. Studi seri sulla storia del liberismo provano la sua relazione con i sistemi più perversi, come la schiavitù. Potrebbe essere che quello che stiamo vivendo oggi sia un modo di capitalismo che cerca di garantire profitti indipendentemente dai mezzi a cui deve ricorrere?

Questo sarebbe vero sia per i governi che mostrano una certa preoccupazione per i diritti umani sia per i governi che sembrano acquisire tratti sempre più autoritari. È questa la tendenza di questo decennio?

ML- In effetti, i capitalisti, l’oligarchia finanziaria, i grandi industriali e l’agrobusiness sono interessati solo a garantire i loro profitti. Il resto sono dettagli senza molta importanza. Se il governo garantisce un’agenda economica neoliberista, come quella di Paulo Guedes, avrà l’appoggio -attivo in alcuni settori, passivo in altri -delle classi dominanti. È vero che i membri più colti delle élite, o più liberali nell’orientamento politico, possono sentirsi a disagio con le follie di Bolsonaro e l’autoritarismo neofascista, ma accetteranno un’opposizione coerente? Finora questo non è successo… Negli Stati Uniti la situazione è diversa. Una parte dell’élite al potere, associata al Partito Democratico, è pronta a porre fine all’episodio delirante di Trump.

Niente di tutto questo è nuovo. Il capitalismo può adattarsi a quasi tutto: schiavitù, lavoro “libero”, democrazia parlamentare, fascismo, dittatura militare, governi liberali, socialdemocratici, nazionalisti o autoritari. L’essenziale è che sia garantito il saggio del profitto e l’accumulazione del capitale.

 

SF – Le grandi potenze possiedono una dottrina imperialista che concepisce i propri confini come impenetrabili, ma quelli di altri paesi come obiettivi da penetrare o demolire. Come pesa questo nella costruzione della resistenza nei paesi periferici?

ML – Gli interventi imperialisti si sono moltiplicati negli ultimi decenni, sia in America Latina che in Medio Oriente. Dobbiamo combattere questi interventi, che rispondono esclusivamente agli interessi economici e geopolitici di quelle potenze, in particolare gli Stati Uniti, senza portarci a sostenere regimi dittatoriali in conflitto con l’impero, in particolare in Medio Oriente.

La questione è diversa in America Latina, dove i governi sono progressisti, -per esempio in Venezuela, Bolivia e Cuba -che, con tutti i loro limiti, devono far fronte all’intervento imperialista statunitense. In questi casi è importante la solidarietà internazionale con la resistenza antimperialista.

 

SF – Penso che uno dei grandi meriti della dialettica marxista, soprattutto nell’interpretazione del marxismo umanista, sia quello di rompere con una visione dualistica, secondo la quale i problemi risiederebbero o solo nell’individuo, che dovrebbe trasformare la propria microrealtà, o totalmente localizzati nel sistema, al punto da negare l’agire degli individui. Anche così, ritengo che sia ancora difficile trasmettere i nostri sforzi di politicizzazione, soprattutto perché la dottrina neoliberista pone l’effettiva responsabilità strumentalmente sull’individuo; inoltre alcuni gruppi socialisti negano l’importanza dell’azione e delle possibilità individuali. La coscienza ecologica può essere un terreno fertile per unire questi campi di battaglia?

ML- Negli scritti del giovane Marx troviamo una concezione dialettica umanista che rompe sia con l’individualismo liberale che con l’organicismo conservatore. In effetti, la lotta socio-ecologica è un buon esempio della necessità di una visione dialettica marxista dell’agire individuale e collettivo. Questo si traduce in due livelli: uno è la complementarità tra le iniziative individuali, come ad esempio la alimentazione vegetariana, e le trasformazioni strutturali come la fine dei sussidi all’industria della carne, o come la difesa delle foreste dall’espansione distruttiva del bestiame. Per gli ecosocialisti non si tratta di opporre un’iniziativa all’altra, ma di conquistare i vegetariani alle lotte sociali. Le mobilitazioni socio-ecologiche, e un possibile processo rivoluzionario di transizione all’ecosocialismo, non sono possibili senza che un gran numero di individui si uniscano a questa lotta collettiva.

Indubbiamente, questa lotta richiede un’ampia coalizione sociale di forze: lavoratori rurali e urbani (di entrambi i sessi), giovani ribelli, comunità indigene, comunità cristiane, popolazione nera, donne, intellettuali, artisti e molto altro ancora. Ma questi gruppi o queste classi sono costituiti da individui, ciascuno con la sua storia, la sua cultura, la sua coscienza. La sua motivazione può essere cristiana, socialista, ecologica, femminista o una mescolanza di queste. Può anche essere il risultato di un’esperienza diretta di distruzione ambientale.

Marielle Franco è stata una persona unica, singolare, per il suo impegno irriducibile nei confronti dei neri delle favelas, delle donne oppresse, del socialismo e dell’ecologia; ma, allo stesso tempo, ha fatto parte di vari collettivi, organizzazioni e un partito combattivo, il PSOL. Nella prima linea della lotta ecologica ci sono le vittime dirette dei disastri causati dalla voracità distruttiva del capitalismo: comunità indigene, donne, movimenti, contadini. Ma anche in questo caso sono gli individui che incarnano il conflitto. Individui che spesso pagano con la vita questo impegno, come è stato il caso, tra molti altri, di Berta Cáceres, leader indigeno dell’Honduras, vittima della violenza paramilitare per aver guidato la resistenza a progetti ecocidi.

Non è un caso che questi due esempi riguardino due donne, che rappresentano la dignità e il coraggio della lotta sociale: non esiste una essenza femminile astratta, ma una concreta condizione sociale che rende le donne più sensibili alle devastazioni ambientali causate dal sistema.

 

SF – Questa convergenza di motivazioni è qualcosa di molto forte nel movimento ecosocialista. Vediamo persone che si uniscono dalle preoccupazioni più diverse. L’ecosocialismo è un grande punto di convergenza delle lotte sociali basate sul materialismo storico? Una sintesi socialista che, mettendo in primo piano la natura, aggiunga la forza di tutte le lotte? Questo mi ricorda quello che dice di solito Sônia Guajajara: la lotta per la Madre Terra è la madre di tutte le lotte. Mi sembra che negare, come fanno alcune organizzazioni socialiste, che la natura attraversi tutte le nostre lotte rappresenta una grande arretratezza.

ML – L’ecosocialismo può contribuire alla convergenza delle lotte, rivelando, con l’aiuto del materialismo storico, l’intima relazione che esiste tra sfruttamento capitalista, razzismo, dominio patriarcale e distruzione della natura. Ma questa convergenza deve rispettare l’autonomia dei movimenti e delle lotte sociali, le loro rispettive agende, i loro obiettivi. La convergenza non è immediata, va pazientemente costruita attraverso il dialogo e le esperienze di lotta. Il World Social Forum, con tutti i suoi limiti, è stata un’interessante esperienza di convergenza di questo tipo. La questione ecologica, il rapporto con la Madre Terra, è attualmente -e lo sarà ancora di più -la questione politica decisiva del nostro tempo. Nei prossimi anni, nella lotta per prevenire la catastrofe del cambiamento climatico irreversibile, si deciderà il futuro che l’umanità dovrà affrontare per secoli, se non per millenni a venire. È molto deludente che tanti compagni socialisti ancora non si rendano conto di questa sfida: non gli è ancora finita la scheda, come dicevano ai miei tempi, quando c’erano ancora i telefoni a scheda. È nostro compito, come ecosocialisti, criticare questa cecità politica e cercare pazientemente di convincere i nostri colleghi.

SF – Di recente mi sono imbattuta in alcune analisi sull'”ecofascismo”, che mi ricordano alcuni elementi del movimento ambientalista più misantropico, soprattutto alla fine del XX secolo. Si va dai dibattiti che incolpano l’essere umano come specie, piuttosto che l’intero modo di produzione e il modello “civilizzante”, a discussioni allarmistiche sulla crescita della popolazione e sulla paura dei rifugiati. In fondo mi chiedo se le conclusioni di tali movimenti e persone non si accontentino di una facile via d’uscita, che allo stesso tempo parte da una risposta sbagliata. Corriamo il rischio che la lotta ambientale venga cooptata, non solo dagli ecocapitalisti e dalle loro soluzioni di mercato, ma anche dai conservatori di estrema destra?

ML – Senza dubbio, quel pericolo esiste. Ci sono ecologi “fondamentalisti” che denunciano la specie umana come responsabile della catastrofe ecologica. Altri, senza andare oltre, pensano che il problema principale sia la sovrappopolazione. Alcuni si spingono fino a proporre una sorta di dittatura ecologica, idea ipotizzata da un filosofo ambientalista del secolo scorso, Hans Jonas. Ma pochi rappresentano il vero “ecofascismo”: si tratta, almeno per il momento, di un fenomeno marginale. L’estrema destra “fascista”, in Europa per esempio, insiste che l’ecologia non è degna di interesse e che il vero problema sono i rifugiati e gli immigrati. Manifestano un odio esacerbato nei confronti di figure come Greta Thunberg, che alcuni accusano di essere una pericolosa “maga”, una comunista, una nemica dellaciviltà occidentale, e così via.

I principali rappresentanti del neofascismo del 21° secolo, personaggi come Donald Trump o Jair Bolsonaro, sono fanaticamente anti-ecologi, negano il pericolo del cambiamento climatico e cercano, con ogni mezzo, di promuovere gli interessi ecocidi dell’oligarchia fossile negli Stati Uniti e nell’agrobusiness in Brasile. Porre fine ai regimi di questi sinistri personaggi è un imperativo categorico e, allo stesso tempo, inseparabilmente sociale ed ecologico. Quello che stanno facendo è semplicemente accelerare il treno suicida della civiltà capitalista industriale verso l’abisso del cambiamento climatico. Dal canto loro, i capitalisti “ragionevoli”, i capitalisti “ecologici”, si propongono di dipingere di verde la locomotiva.

 

SF – Vedo che vari capitalisti sono intervenuti in dibattiti come il Green New Deal per assicurarsi che qualsiasi disegno di legge approvato al riguardo sia favorevole ai loro investimenti. Come mostra Naomi Klein in This Changes Everything, ci sono anche grandi borghesi nell’industria dei combustibili fossili che investono nelle rinnovabili. Qual è la grandezza della sfida che affrontiamo quando si tratta di mettere l’ecologia al centro del dibattito, se i capitalisti stessi muovono il loro intero apparato per fare un passo avanti nella mercificazione della natura? La finanziarizzazione della natura è una realtà nel mercato globale.

ML – Da molti anni, infatti, esiste un «capitalismo verde», interessato al mercato delle energie rinnovabili, e governi che propongono politiche di «sviluppo sostenibile». Anche il Fondo Monetario Internazionale giura che promuoverà un’economia ecologica. Qual è il risultato di tutto questo? Niente! O peggio: man mano che i discorsi diventano sempre più verdi, il cielo diventa sempre più grigio… Le emissioni di gas fossili non solo non sono diminuite, ma continuano ad aumentare, e gli scienziati, sempre più preoccupati, fanno risuonare segnali di allarme. Con il pretesto di “proteggere” la natura, vengono sviluppate politiche di privatizzazione di giungle e foreste. Si stanno sviluppando enormi mercati dei diritti di emissione, che sono un buon affare per banche e aziende, ma pessimo per l’ambiente.

Ci sono opere eccellenti di pensatori ecosocialisti che demistificano queste proposte: The Impossible of Green Capitalism, di Daniel Tanuro, e The God Who Failed: Green Capitalism, di Richard Smith. Il capitalismo non può esistere senza espansione illimitata, senza produttivismo e consumismo, e da due secoli dipende dai combustibili fossili. Solo un’intransigente battaglia socio-ecologica può farlo tornare indietro, in un primo momento, per poi superarlo con un altro modo di produzione, o meglio ancora, con un altro modo di vivere.

 

SF – Può commentare come la colonizzazione continui ad essere un fattore centrale nella riproduzione economica, culturale e militare dell’America Latina? Ci sono regioni ricche di risorse naturali che sembrano essere molto vulnerabili alla dominazione straniera, specialmente quando ci sono storiche relazioni di oppressione. Penso, ad esempio, alle compagnie minerarie canadesi e al ruolo distruttivo che svolgono nella nostra regione. Agiscono in modo contraddittorio anche in Canada, che è un simbolo di sviluppo nonostante continuino ad espropriare territori ai popoli originari del nord.

ML – José Carlos Mariátegui, il grande fondatore del marxismo latinoamericano, ammoniva nel 1928: se non c’è un’alternativa socialista indoamericana (oggi diremmo afroamericana), i paesi dell’America Latina sono condannati ad essere semicolonie dell’impero nordamericano. Questo è ciò che vediamo ancora oggi, in forme «modernizzate»: per riprendere la celebre immagine di Eduardo Galeano, le vene della nostra America restano aperte, e le nostre economie continuano ad essere sottoposte agli imperativi del mercato mondiale, controllato New York, Londra, Berlino, ecc.

E non si tratta solo del saccheggio delle nostre risorse naturali: si tratta della distruzione sistematica dell’ambiente, delle foreste e delle giungle, dell’avvelenamento dei fiumi. Il caso della multinazionale petrolifera Chevron in Ecuador, che ha lasciato un territorio immenso completamente contaminato e distrutto, è solo un esempio tra i tanti. Tutto questo è avvenuto, ben inteso, con la complicità attiva dei vari governi neoliberisti che si sono succeduti in America Latina negli ultimi decenni. L’eccezione è stata Cuba, dal 1959, e, in parte, alcune esperienze antimperialiste nel continente, come quella di Hugo Chávez in Venezuela. Marx aveva previsto, nel Capitale, che il “progresso” capitalista è progresso sulla rovina di due fonti di ricchezza: la terra e l’operaio. L’America Latina è un bell’esempio di quella regola.

È chiaro che le multinazionali yankee non sono le uniche a promuovere la distruzione ambientale. I canadesi non sono molto indietro, in termini di devastazione del nostro continente, e affrontano, in molti casi, un’ostinata resistenza popolare. È il caso, ad esempio, del Perù, dove la popolazione di Cajamarca si è opposta a una società mineraria canadese che voleva sfruttare una miniera d’oro utilizzando l’acqua dei fiumi. Sotto lo slogan “Acqua sì, oro no!”, iniziò una mobilitazione popolare contro questo progetto distruttivo. Anche in Canada le multinazionali che sfruttano il petrolio più sporco del pianeta, in termini di emissioni di CO2, e le cosiddette “aree bituminose”, stanno cercando di espropriare le terre indigene e costruire enormi oleodotti nei loro territori. James Hansen, il famoso scienziato del clima americano, ha affermato che se quel petrolio sarà estratto ed esportato attraverso gli oleodotti, la lotta al cambiamento climatico sarà persa. Le comunità indigene in Canada hanno condotto una lotta coraggiosa contro questi sinistri progetti di “sviluppo”, con il sostegno di socialisti, ambientalisti e sindacalisti. Difendendo i loro territori e fiumi ancestrali, queste comunità sono in prima linea nella lotta dell’umanità per prevenire una catastrofe ecologica planetaria.

Gli anticolonialisti si stanno mobilitando in tutto il mondo in solidarietà con le popolazioni indigene del Canada. Di recente è stato pubblicato in più lingue un manifesto internazionale a sostegno della loro lotta, firmato da circa duecento artisti e poeti surrealisti di decine di paesi.

SF – In un tuo recente testo parli della “razionalità democratica delle classi popolari”. Una visione tradizionale ed elitaria della politica afferma spesso che la maggioranza della popolazione ha pregiudizi che le impediscono di partecipare alla politica oltre al voto, ma credo che sia un problema di tempo e di organizzazione politica. Una donna della periferia lavora otto ore al giorno fuori casa, passa tre ore sui mezzi pubblici e svolge anche i lavori domestici. Se non partecipa alle decisioni politiche quotidiane, non è necessariamente perché mancanza di interesse, ma per esaurimento. Quali politiche possono aiutarci ad abbattere le barriere temporanee della disponibilità per facilitare il fiorire di quella razionalità democratica?

ML – La razionalità democratica delle classi popolari è una scommessa dei rivoluzionari. Il comportamento della popolazione non sempre obbedisce a questo criterio ma, in definitiva, la nostra speranza è che questa razionalità diventi egemonica. Nella lotta per consentire ai settori oppressi, in particolare alle donne, di partecipare alla vita politica, la richiesta di una riduzione dell’orario di lavoro gioca un ruolo molto importante. Con meno ore di lavoro e più tempo libero, si creano le condizioni per un’effettiva partecipazione democratica. Non a caso Marx ha scritto nel Capitale che la riduzione della giornata lavorativa è stato il primo passo per l’istituzione del regno della libertà. Nel caso delle donne, è essenziale la lotta per i servizi pubblici rivolti ai bambini, come gli asili nido, e l’equa distribuzione dei compiti domestici tra i sessi. Tuttavia, anche nelle attuali difficili condizioni, e negli ultimi decenni, ci sono stati momenti in cui l’irruzione delle masse popolari, operaie, giovanili, femminili, è riuscita a mettere all’ordine del giorno un’agenda democratica e popolare: i grandi scioperi dell’ABC nel 1978-1979, la fondazione del PT (Partido dos Trabalhadores, ndr) nel 1980 e del MST (Movimento dostrabalhadoresrurais Sem Terra, ndr) alcuni anni dopo, la mobilitazione per le «Directas ya» nel 1984, la campagna per l’impeachment di Collor, e così via fino a giungere ai giorni del 2013. Non ho dubbi che la stessa cosa accadrà di nuovo, prima o poi, di fronte alla banda neofascista che attualmente governa il Brasile.

 

SF – Nel 2013 ci trovammo ad affrontare una sfida. Le giornate di protesta erano state inizialmente segnate da tratti popolari, come nella rivendicazione del diritto alla città, ma la spoliticizzazione poi é cresciuta man mano che le strade si riempivano. Vedo che oggi c’è una certa paura a sinistra nei confronti dei movimenti di massa senza leadership centralizzate, poiché la destra, soprattutto attraverso i mass media, ha un’enorme capacità di cooptazione. Allo stesso tempo, Bolsonaro e Trump alimentano la sfiducia nei confronti dei big media che non li favoriscono, ma con l’intento di promuovere fake news ancora più depoliticizzanti. Come dispiegare in questo contesto una battaglia per la comunicazione e per mezzi più democratici?

ML – È molto importante che la sinistra e le forze popolari costruiscano i propri media e utilizzino i social network per diffondere il loro messaggio. In Brasile un settore importante della Chiesa è solidale con i movimenti sociali e utilizza le proprie reti di comunicazione. Ci sono anche alcuni spazi nei media mainstream che possono essere utilizzati, soprattutto quando sono costretti a opporsi al governo, come nel caso del Brasile. Dobbiamo usare tutti i mezzi per combattere la fake news che è sempre stata, dai tempi di Joseph Goebbels, il metodo preferito dai fascisti.

La battaglia per la comunicazione in Brasile non passa solo attraverso i media. Il Carnevale è uno spazio fondamentale e l’esibizione delle Scuole di Samba di Sinistra l’anno scorso è stata un grande passo in avanti! Lo stesso è successo con le tifoserie di calcio, che quest’anno sono state l’avanguardia nella protesta contro Bolsonaro.

È vero che la destra è riuscita a egemonizzare le proteste di piazza dal 2014 al 2016, ma è improbabile che ciò accada di nuovo dato che la capacità di mobilitazione del bolsonarismo è in netto declino.

 

SF – Quando è stata dichiarata la pandemia di coronavirus, si è parlato molto nei media mainstream di una “nuova normalità”, in cui le persone si sarebbero sentite più connesse e avrebbero rivisto le proprie posizioni di fronte alla morte e alla sofferenza. Tuttavia, il sistema sembra essersi adattato ancora una volta. È possibile che un grande evento globale funga da catalizzatore per un cambiamento di civiltà, senza che questo sia una conseguenza diretta di una campagna ecosocialista?

ML – Non posso prevedere se ci saranno o meno eventi catalizzatori in futuro. Ma non possiamo aspettare una catastrofe o un’epidemia per lottare per il cambiamento di civiltà. Dobbiamo iniziare subito a divulgare il nostro programma ecosocialista. È molto importante diffondere convegni, opuscoli, libri e moltiplicare le iniziative sui social network per spiegare la nostra proposta, l’impossibilità di un “capitalismo verde” e la necessità di una transizione ecologica rivoluzionaria. Non è un caso che l’interesse per l’ecosocialismo stia crescendo in Brasile e nel mondo. A proposito, è stato appena fondato un Global Ecosocialist Network che mira a stabilire collegamenti tra gli ecosocialisti del nord e del sud del mondo. Intanto, il principale punto di partenza sono le concrete lotte socio-ecologiche che si scontrano con la logica del sistema. Ad esempio, le lotte delle comunità indigene in Amazzonia e in altre regioni del Paese contro la devastazione delle nostre foreste e dei nostri fiumi causata dalla enorme estrazione mineraria, dall’agrobusiness, dall’espansione dell’allevamento di bestiame e della coltivazione della soia; la lotta del MST ai pesticidi e per una riforma agraria che favorisca l’agricoltura biologica, e la lotta dei giovani delle grandi città per il trasporto pubblico gratuito. Potrei moltiplicare gli esempi. È in queste lotte che si sviluppa la coscienza anticapitalista, così come la comprensione della necessità di un’auto-organizzazione dal basso e la coscienza che solo attraverso il combattimento collettivo è possibile imporre le rivendicazioni degli oppressi e degli sfruttati. Il compito degli ecosocialisti è partecipare a queste lotte, sostenerle, aiutarle, organizzarle e integrare in esse la proposta ecosocialista.

 

SF – Se la “normalità” fosse parte del problema cosiccome lo è la “nuova normalità”, soprattutto se si considera l’arricchimento di cui hanno beneficiato i miliardari durante i periodi più difficili affrontati dalla popolazione mondiale, quali misure immediate sarebbero utili per unire le esigenze generali e rimettere in discussione quell’ordine che si è imposto di nuovo?

ML – Anzi, le classi dirigenti, non appena la pandemia glielo permetterà, cercheranno di tornare agli affari normali, tornare ai soliti vecchi affari, nel paradiso degli sfruttatori, in cui una dozzina di miliardari hanno l’equivalente della metà della ricchezza. dell’umanità.

Sviluppare un programma di rivendicazioni è un compito collettivo, non posso dare una risposta concreta. Ma penso che un programma di questo tipo, in Brasile, dovrebbe includere, tra gli altri obiettivi, una profonda riforma fiscale che ponga fine agli scandalosi privilegi di una piccola minoranza di oligarchi; una radicale riforma agraria, con criteri ecologici, che favorisca l’agricoltura contadina e biologica contro l’agrobusiness ecocida; la difesa dell’Amazzonia e dei popoli che la abitano contro la furia distruttrice delle compagnie minerarie e dei proprietari terrieri, e la riduzione dell’orario di lavoro, senza riduzione dei salari, come soluzione alla drammatica crescita della disoccupazione.

 

SF – Di fronte a tutto questo, è possibile mantenere “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”? Mentre il coaching (addestramento dell’individuo, ndr) liberale promuove la ricerca del “lato positivo delle cose”, è facile per noi scoraggiarci per le sconfitte. Cosa si dovrebbe dire a qualcuno che si sente politicamente scoraggiato in questo momento?

ML – Le sconfitte, come le vittorie, fanno parte della storia del socialismo e delle lotte sociali. Il pessimismo della ragione ci mette in guardia sulla gravità della situazione, sul pericolo crescente di catastrofe ecologica e sul grande potere dei nostri avversari, i neofascisti e i neoliberisti (o entrambi allo stesso tempo!). Ma ci sono anchesegni di speranza: il socialismo non ha mai avuto tanti sostenitori e sostenitori in America e in Inghilterra come oggi. La mobilitazione giovanile contro il cambiamento climatico, ispirata da Greta Thunberg, ha ottenuto il sostegno di milioni di persone in tutto il mondo. Potremmo moltiplicare gli esempi, anche in Brasile. Ovviamente, non vi è alcuna garanzia che l’ecosocialismo vincerà, né che l’umanità riuscirà a sfuggire alla catastrofe. Questa è, come direbbero sia il mio maestro Lucien Goldmann che il mio compagno Daniel Bensaïd , una scommessa nella quale impegnare le nostre vite, sia in modo individuale che collettivo. Se i rivoluzionari si mobilitassero solo quando sono sicuri della vittoria, non ci sarebbe mai stata una rivoluzione. Si tratta quindi di ottimismo della volontà: come diceva Brecht, chi combatte può perdere; chi non combatte, già perso.

A proposito dell’intervistatore: Sabrina Fernandes è dottoressa in sociologia e attivista ecosocialista. È collaboratrice e redattrice di Jacobin Magazine e consulente editoriale per Jacobin Brasil. Sta svolgendo un post-dottorato presso l’International Research Group on Authoritarianism and Counter-strategies della Fondazione Rosa Luxemburg e dell’Università di Brasilia. Genera contenuti per il canale di sinistra radicale Teze Onze

 

Traduzione di Fabio Feri

 

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