di Josè Sanchez

La guerra in Ucraina ha rivelato la dipendenza di molti Paesi dalle materie prime prodotte dalla Russia (petrolio, gas, grano, fertilizzanti). Il commercio dell’uranio, invece, è rimasto nell’ombra.

Il peso dell’industria atomica civile di Mosca si misura con il numero di reattori di progettazione russa in funzione nel mondo. Su un totale di 440 reattori, 80 sono di tipo VVR (light water nuclear). Molti di questi edifici risalgono all’epoca sovietica. Sono soprattutto i Paesi dell’Unione Europea Orientale (UE) a fare affidamento sull’uranio russo per alimentare le proprie centrali nucleari.
In Ungheria, quattro unità producono metà dell’elettricità; nella Repubblica Ceca, sei unità coprono il 37% della produzione; in Bulgaria, due reattori producono un terzo dell’elettricità. Questo spiega anche una certa riluttanza ad applicare sanzioni. In totale, i Paesi dell’UE utilizzano 18 reattori di origine russa su un centinaio di unità attive.

Un nuovo gigante globale

Il Gruppo Rosatom è un gigante globale. Creata nel 2007 dalla fusione di tutte le aziende private e pubbliche che operano nel campo dell’energia nucleare civile, impiega più di 275’000 persone e ha accordi con più di 50 Paesi. La centralizzazione delle sue attività da parte del governo le conferisce una forza commerciale che rivaleggia con gli altri grandi gruppi globali. Mosca è quindi in grado di dominare il mercato internazionale e di fornire l’intera gamma di servizi nel settore energetico: costruzione di impianti, competenze e combustibili.

Questa posizione dominante è evidente nell’offerta di uranio naturale. Secondo l’agenzia Euratom, la Russia fornisce il 20% del minerale necessario all’UE e il 45% alla Francia. Il Kazakistan è al secondo posto. Rosatom è molto presente anche in altre due operazioni essenziali per l’utilizzo dell’uranio come combustibile nucleare: la “conversione” e poi l’arricchimento dell’U235. La quota di Rosatom in queste due fasi è rispettivamente del 25% e del 31% per il mercato europeo e del 40% e 46% a livello mondiale.

Non è solo l’UE ad essere così dipendente. Rosatom fornisce anche la più grande flotta del mondo, quella degli Stati Uniti (93 unità) con il 25%.

Non si tratta solo di una dipendenza da un materiale, ma anche da una tecnologia. I nuovi impianti nucleari cosiddetti di “quarta generazione” richiedono una quantità maggiore di uranio arricchito (20%) che solo la Russia può fornire.

Nell’aprile 2022, il Parlamento europeo aveva richiesto un divieto assoluto di importazione dell’uranio. Da allora, nonostante il varo di otto diversi pacchetti di sanzioni, l’atomo non sembra essere toccato da queste restrizioni.

L’indipendenza sarebbe troppo costosa

Alla base di questa dipendenza ci sono le scelte economiche dell’UE, come nel caso del gas e del petrolio. La costruzione di impianti di conversione e arricchimento, l’aumento delle attuali capacità di lavorazione e la padronanza tecnologica sono molto costosi. Il declino dell’industria nucleare negli ultimi anni non sta spingendo i capitali verso questo settore. Le decisioni politiche e finanziarie hanno introdotto una grande incertezza per i possibili nuovi progetti.

Molti Paesi hanno deciso di chiudere gli impianti o di non rinnovare il parco esistente. I capitalisti vogliono avere garanzie a lungo termine per effettuare i grandi investimenti necessari. Le centrali nucleari, a differenza di quelle a gas, non possono essere realizzate in pochi mesi.

Per il momento, la situazione è molto eterogenea. Da un lato, Rosatom sta perdendo clienti (Finlandia e Svezia hanno annullato i contratti) e vede ostacolate le sue possibilità di esportazione, così come l’accesso ai finanziamenti. D’altra parte, si stanno aprendo nuovi mercati. Attualmente il gruppo vanta 34 progetti di costruzione all’estero (Turchia, Egitto), per un valore complessivo di 140 miliardi di dollari.

Riciclare o abbandonare l’uranio?

Resta, infine, una questione fondamentale. Per nascondere il fatto che produce costantemente tonnellate di scorie, alcune delle quali rimarranno radioattive per decine di migliaia di anni, l’industria nucleare mantiene il mito di un “ciclo” del combustibile in cui l’uranio usato può essere riciclato. Questo comporta processi industriali complessi, costosi e altamente inquinanti per riprocessare l’uranio proveniente dalle centrali elettriche, e si tratta di una scelta ancora assai inefficace. Infatti, solo una parte dell’uranio esaurito può essere utilizzata in questa fase di riconversione.

Il trasporto dell’uranio riprocessato in Siberia rivela l’illusione del riciclaggio nel settore nucleare. In effetti, le scorte di rifiuti radioattivi continuano a crescere. E se il riprocessamento in Russia diventasse impossibile, questa quantità potrebbe aumentare in modo significativo. Allo stesso tempo, i siti di stoccaggio in superficie, che dovrebbero riceverlo temporaneamente, iniziano a saturarsi. Questa situazione preoccupante rende ancora più necessario e urgente il passaggio alle energie rinnovabili e una forte riduzione del consumo di elettricità.

*articolo apparso sul giornale SolidaritéS il 27 dicembre 2022.

Traduzione in italiano a cura del segretariato MPS

 

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