Una riflessione sulla situazione politica attuale e possibili vie d’uscita

di Matilde Revelli

 

Il 26 maggio è andato in diretta YouTube il dibattito “UN Climate Talks (COP) – Stay or Leave?” (Conferenza climatica ONU (COP) – Restare o abbandonare?), organizzato dal Global Ecosocialist Network e che vedeva in campo le opinioni opposte di Asad Rehman (War on Want) e Alice Gato (Climáximo).

La discussione di circa un’ora si è incentrata appunto sulla tematica della “Conference of the Parties” (COP), il più grande summit mondiale sul clima che riunisce tutti i Paesi e le principali forze politiche e sociali del globo per due settimane all’anno. Nel 2023 la COP ha avuto luogo negli Emirati Arabi Uniti, Paese conosciuto per il suo modello economico fortemente incentrato sul petrolio e sui combustibili fossili e per questo al centro di grandi critiche e dibattiti. È su questo che si è incentrata in parte la discussione del 26 maggio e da cui partiamo per lanciare la riflessione delineata in questo articolo. È legittimo che un Paese la cui economia è basata su procedure a forte impatto ambientale ospiti la più importante conferenza sul clima a livello mondiale? Come possono i movimenti ecosocialisti muovere l’ago della bilancia per far sì che penda a favore di uno sviluppo economico incentrato sul benessere sociale e comunitario, piuttosto che sul profitto?

Asad Rehman e Alice Gato hanno espresso ognuno la propria opinione. Per Rehman, la partecipazione dei movimenti ‘dal basso’ nella COP può essere un’occasione per modellare il dibattito a nostro piacimento, influenzando le forze politiche che vi partecipano e portando l’attenzione su tematiche che altrimenti non verrebbero considerate da coloro che ricoprono posizioni di potere. Al contrario, Gato sostiene che la COP non è altro che una “conferenza criminale che mira allo sfruttamento delle popolazioni e dei territori secondo un progetto neocoloniale ‘dipinto di verde’ e illudendo la gente che i partecipanti della COP hanno a cuore il problema del cambiamento climatico”. Per Gato, la COP non ha e non ha mai avuto l’intenzione di mettere in discussione il capitalismo, fonte della duplice crisi, climatica e sociale, che ci troviamo oggi ad affrontare, e per questo motivo “dopo 28 COP ci troviamo ancora in una situazione di emergenza climatica”.

 

Nonostante le opinioni contrastanti, Rehman e Gato si trovano d’accordo su una cosa: la crisi climatica e la giustizia sociale sono inestricabilmente legate e devono essere affrontate tramite un movimento popolare intersezionale che guardi a questi e altri problemi non come entità separate, bensì come piccoli tasselli di un puzzle ben più grande. Per avere effetto, un vero movimento ecosocialista rivoluzionario deve guardare a tutte queste tematiche insieme, cosa che finora non è stata fatta. Soprattutto se consideriamo il livello politico, non ci dovrebbe sorprendere la crescita dei movimenti di estrema destra e neo-nazisti che hanno guadagnato terreno in Europa e nel mondo negli ultimi 5-10 anni. La sinistra (europea, ma non solo) non è stata in grado di mobilitarsi per far fronte a questa duplice (o molteplice) sfida e per questo si trova ora a perdere voti di fronte ai movimenti populisti, da sempre capaci di mobilitare le grandi masse e colpire nei cuori della gente tramite messaggi forti e d’impatto.

Questi messaggi fanno breccia soprattutto nel cuore di chi negli ultimi anni ha visto il proprio mondo erodersi senza un sostegno da parte delle forze politiche in campo, tecnicamente responsabili del benessere sociale e collettivo. Sostenendo e indirettamente finanziando il capitalismo, per esempio tramite incentivi alle grandi multinazionali, i governi degli ultimi 30 anni hanno eroso il sistema sociale e comunitario su cui riposa la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Se pensiamo all’Italia, per esempio, possiamo riflettere sull’avanzata delle grandi aziende (spesso straniere, come ad esempio Amazon) che stroncano la concorrenza e uccidono le piccole e medie imprese che hanno da sempre formato la base del tessuto sociale ed economico del nostro Paese. Tutto ciò è accompagnato, almeno in Italia, da profondi tagli ai bilanci di istituzioni pubbliche quali la sanità e il sistema educativo, pilastri fondamentali della società che però rimangono profondamente sottofinanziati dai governi, sia di destra che di sinistra.

 

A fronte di una doppia crisi economica e sociale, quando il lavoro scarseggia, i salari sono al minimo storico e il sistema del welfare si sbriciola lentamente, è perfettamente normale che le persone cerchino conforto in figure (all’apparenza) forti che lanciano messaggi chiari in cui ci si può identificare facilmente. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 ne è un ottimo esempio. La crescita dei movimenti populisti di destra è spiegata dal fatto che questi sono stati capaci di mobilitare gli animi degli ultimi, di coloro che si sono trovati dimenticati e abbandonati dal sistema, usando parole forti e capri espriatori ben precisi (ad esempio l’aumento dei flussi migratori all’indomani della Primavera Araba). Al contempo, la sinistra si è concentrata su altre questioni sociali che, per quanto giuste e necessarie, le hanno fatto perdere terreno rispetto all’altro campo e di cui ora paga le conseguenze sul piano elettorale. Inoltre, mentre la destra si è proposta come una voce “antisistema” e in forte contrasto alle élites dominanti, la sinistra ha continuato il gioco senza mettere sé stessa né il sistema capitalista in discussione, proprio quando avrebbe potuto invece proporre riforme radicali e incentrare il sistema verso uno sviluppo più sostenibile a favore delle persone, piuttosto che del profitto. Evitando di radicalizzarsi, la sinistra ha permesso lo spostamento graduale di tutti i programmi politici verso destra, di modo che oggi le politiche di Joe Biden siano considerate democratiche, mentre Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez vengono additati come rivoluzionari quasi al livello dei bolscevichi di inizio Novecento.

Di fronte alla concreta minaccia di una vittoria dell’estrema destra nel corso di quest’anno, in seguito alle elezioni europee così come altre elezioni nazionali e locali in Europa e nel mondo, c’è un forte bisogno di costruire un movimento alternativo radicato nei bisogni reali delle persone, soprattutto degli ultimi e di chi negli ultimi anni si è trovato abbandonato dai poteri politici. Questo movimento deve essere globale e intersezionale, un “movimento dei movimenti” (per citare Asad Rehman) che porti avanti le lotte da una prospettiva ecologista, antirazzista, transfemminista, decoloniale, anti-capitalista e pacifista. Un movimento dal basso che possa fornire una vera alternativa alle forze politiche oggi presenti in campo, a destra come a sinistra (sempre che esistano ancora due campi differenti), e che si prenda carico di avanzare i bisogni reali delle persone di ogni classe sociale, con particolare attenzione ai ceti più bassi. Un movimento che guardi alla crisi climatica e sociale come due facce della stessa medaglia, indissolubili e per questo impossibili da affrontare separatamente.

 

I momenti di crisi possono generare drammi, così come delle nuove opportunità. Prendiamo questa fase di instabilità come un’occasione per crescere, rinascere più forti e così cambiare le sorti dell’umanità nel prossimo futuro, per noi e per le generazioni che verranno dopo.

 

 

Letture collegate

Dibattito: UN Climate Talks (COP) – Stay or Leave? – riassunto in italiano https://www.redongreen.it/wp-admin/post.php?post=1923&action=edit

“The Left, the Far-Right and Climate Chaos”, pubblicato in “Climate & Capitalism” il 27 marzo 2024.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *