Ripubblichiamo a distanza di un anno un interessante articolo di Lowy sulla necessità di una pianificazione razionale e democratica per qualsiasi transizione ecologica.

di Michael Lowy

Pianificazione e transizione ecologica e sociale*

La necessità di una pianificazione economica in qualsiasi processo serio e radicale di transizione socio-ecologica è sempre più accettata, contrariamente alle posizioni tradizionali dei partiti Verdi, favorevoli ad una variante ecologica dell’”economia di mercato”, vale a dire al “capitalismo verde”.   Nel suo ultimo libro, Naomi Klein sottolinea che qualsiasi reazione seria alla minaccia climatica dovrebbe “riguadagnare il controllo di un’arte diffamata durante questi decenni di feroce liberalismo: l’arte della pianificazione”. Ciò include, a suo avviso, una pianificazione industriale, un piano di utilizzo del territorio, un piano agricolo, un piano di occupazione per i lavoratori le cui professioni sarebbero rese obsolete dalla transizione, ecc. “Per tanto, si tratta di apprendere di nuovo come pianificare le nostre economie secondo le nostre priorità collettive e non più secondo i criteri di redditività” [1] .

Pianificazione democratica

La transizione socio-ecologica – verso un’alternativa ecosocialista – implica il controllo pubblico dei principali mezzi di produzione e una pianificazione democratica: se le decisioni relative agli investimenti e ai cambiamenti tecnologici devono servire il bene comune della società e rispettare l’ambiente, devono essere sottratte alle banche e alle società capitaliste.Chi dovrebbe prendere queste decisioni? Spesso la risposta dei socialisti era: i lavoratori. Nel libro III del  Capitale, Marx definisce il socialismo come una società in cui “i produttori associati regolano razionalmente i loro scambi (Stoffwechsel)  con la natura”. Tuttavia, nel primo libro del  Capitale,  troviamo un punto di vista più ampio: il socialismo è concepito come “un’associazione di esseri umani liberi (Menschen) che lavorano con mezzi collettivi (gemeinschaftlichen ) di produzione” [2]. È una concezione molto più appropriata: la produzione e il consumo devono essere organizzati razionalmente non solo dai “produttori” ma anche dai consumatori e, di fatto, dalla società nel suo insieme, dalla popolazione produttiva come da quella “non produttiva”: studenti, giovani, donne e uomini “casalinghe/i”, pensionati, ecc.   In questo senso, la società nel suo insieme sarà libera di decidere democraticamente le linee di produttizione da privilegiare e il livello di risorse che devono essere investite nell’istruzione, nella salute o nella cultura. I prezzi dei beni stessi non saranno più determinati dalla legge della domanda e dell’offerta, ma saranno stabiliti per quanto più possibile sulla base di criteri sociali, politici ed ecologici.   Lungi dall’essere “dispotica” in sé, la pianificazione democratica costituisce l’esercizio della libertà di decisione dell’intera società. Un esercizio necessario per emanciparsi dalle “leggi economiche” e dalle “gabbie di ferro” alienanti e reificate all’interno delle strutture capitalistiche e burocratiche. La pianificazione democratica associata alla riduzione dell’orario di lavoro sarebbe un considerevole passo avanti dell’umanità verso quello che Marx chiamava “il regno della libertà”: l’aumento del tempo libero costituisce in realtà una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione e alla gestione democratica sia dell’economia che della società.   I sostenitori del libero mercato usano instancabilmente il fallimento della pianificazione sovietica per giustificare la loro categorica opposizione a qualsiasi forma di economia organizzata. Sappiamo, senza avviare una discussione sui successi e i fallimenti dell’esperienza sovietica, che questa era senza dubbio una forma di “dittatura sui bisogni”, per citare l’espressione usata da György Markus e i suoi colleghi della scuola di Budapest: un sistema antidemocratico e autoritario che dava il monopolio delle decisioni a una piccola oligarchia di tecno-burocrati. Non era la pianificazione che ha portato alla dittatura. Fu la crescente limitazione della democrazia all’interno dello stato sovietico e l’istituzione di un potere burocratico totalitario dopo la morte di Lenin che portò a un sistema di pianificazione sempre più autoritario e non democratico. Se è vero che il socialismo è definito come il controllo dei processi di produzione da parte dei lavoratori e della popolazione in generale, l’Unione Sovietica sotto Stalin e i suoi successori non avevano nulla a che fare con questa definizione.   Il fallimento dell’URSS mostra i limiti e le contraddizioni di una pianificazione burocratica la cui inefficacia e arbitrarietà sono evidenti: pertanto non può essere usata come argomento contro l’applicazione di una pianificazione veramente democratica. La concezione socialista della pianificazione non è altro che la democratizzazione radicale dell’economia: se è vero che le decisioni politiche non dovrebbero essere lasciate nelle mani di una piccola élite di leader, perché non applicare lo stesso criterio alle decisioni economiche? La questione dell’equilibrio tra mercato e i meccanismi di pianificazione è senza dubbio una questione complessa: durante le prime fasi della nuova società, il mercato occuperà sicuramente un posto significativo, ma mentre la transizione progredirà verso il socialismo, la pianificazione diventerà sempre più importante.     Nel sistema capitalista il valore d’uso è solo un mezzo – e spesso uno stratagemma – subordinato allo scambio di valore e alla redditività (questo di fatto spiega perché ci sono così tanti prodotti insignificanti nella nostra società, senza alcuna utilità). In un’economia socialista pianificata, la produzione di beni e servizi risponde solo al criterio del valore d’uso, che ha conseguenze economiche, sociali ed ecologiche spettacolari.   Naturalmente, la pianificazione democratica riguarda le grandi opzioni economiche e non l’amministrazione di ristoranti locali, dei negozi di alimentari, panetterie, piccoli negozi, attività artigianali o servizi. Allo stesso modo, è importante sottolineare che la pianificazione non è in contraddizione con l’autogestione dei lavoratori nelle loro unità produttive. Ad esempio, considerando che l’eventuale decisione di trasformare una fabbrica di automobili in un’unità di produzione di autobus o tram spetterà alla società nel suo insieme, l’organizzazione interna e il funzionamento della fabbrica dovranno invece essere gestiti democraticamente dagli stessi lavoratori. Si è discusso a lungo sulla natura “centralizzata” o “decentralizzata” della pianificazione, ma l’importante rimane il controllo democratico del piano a tutti i livelli: locale, regionale, nazionale, continentali e, si spera, planetario, perché i temi che riguardano l’ecologia, come la crisi climatica, sono globali e possono essere affrontati solo a questo livello. Questa proposta potrebbe essere definita come una “pianificazione democratica globale”. Anche a tale livello, si tratta di una pianificazione che si oppone a quella che viene spesso definita “pianificazione centrale” perché le decisioni economiche e sociali non saranno prese da alcun “centro”, ma democraticamente determinate dalle popolazioni interessate.   Ci saranno, naturalmente, tensioni e contraddizioni tra le istituzioni e gli spazi autogestiti e le amministrazioni democratiche locali ed altri gruppi sociali più grandi. Saranno necessari meccanismi di negoziazione per aiutare a risolvere molti di questi conflitti, ma alla fine spetterà ai settori sociali più grandi coinvolti, e solo se saranno maggioranza, ad esercitare il loro diritto di imporre le proprie opinioni. Per fare un esempio: una fabbrica autogestita decide di scaricare i suoi rifiuti tossici in un fiume. La popolazione di un’intera regione è minacciata da questo inquinamento. Può quindi, a seguito di un dibattito democratico, decidere che la produzione di questa unità debba essere fermata fino a trovare una soluzione soddisfacente per controllare i suoi rifiuti. Idealmente, in una società ecosocialista, gli stessi operai avranno sufficiente consapevolezza ecologica per evitare di prendere decisioni pericolose per l’ambiente e la salute della popolazione locale. Tuttavia, il fatto di introdurre strumenti che garantiscono il potere decisionale della popolazione per difendere gli interessi più generali, come nell’esempio precedente, non significa che le questioni relative alla gestione interna non debbano essere sottoposte ai cittadini a livello di fabbrica, scuola, quartiere, ospedale o città.   La pianificazione eco-sociale deve basarsi su un dibattito democratico e pluralista, a ogni livello di decisione. Organizzati sotto forma di partiti, piattaforme o qualsiasi altro movimento politico, i delegati degli organi di pianificazione saranno eletti e le varie proposte verranno presentate a tutti coloro a cui riguardano. In altre parole, la democrazia rappresentativa deve essere arricchita – e migliorata – da forme di democrazia diretta che consentano alle persone di scegliere direttamente – localmente, a livello nazionale e, infine, a livello internazionale – tra diverse proposte. L’intera popolazione dovrebbe quindi poter prendere decisioni, ad esempio, sul trasporto pubblico gratuito, su una tassa speciale pagata dai proprietari di auto per sovvenzionare il trasporto pubblico, sui sussidi per l’energia solare per renderla competitiva rispetto all’energia fossile, sulla riduzione dell’orario di lavoro a 30, 25 ore settimanali o meno, anche se ciò comporta una riduzione della produzione.   La natura democratica della pianificazione non la rende incompatibile con l’eventuale partecipazione di esperti il cui ruolo non è quello di decidere, ma di presentare argomenti – che possono essere diversi, persino opposti – durante il processo decisionale democratico. Come diceva Ernest Mandel: “Governi, partiti politici, consigli di pianificazione, scienziati, tecnocrati o chiunque altro possa presentare proposte, avanzare iniziative e cercare di influenzare le persone … Tuttavia, in un sistema multipartitico, tali proposte non saranno mai unanimi: le persone sceglieranno tra le alternative coerenti. Pertanto, il diritto e il potere effettivi di prendere decisioni devono essere nelle mani della maggioranza dei produttori/consumatori/cittadini e di nessun altro. C’è qualcosa di paternalistico o dispotico in questa posizione?” [3]   Sorge una domanda: quale garanzia abbiamo che le persone prenderanno le decisioni giuste, quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da pagare è il cambiamento di parte delle loro abitudini di consumo? Non esiste una tale “garanzia”, ma abbiamo solo la ragionevole prospettiva che la razionalità delle decisioni democratiche trionferà una volta abolito il feticismo dei beni di consumo. È certo che le persone commetteranno errori facendo scelte sbagliate, ma gli esperti non commettono gli stessi errori? È impossibile immaginare la costruzione di una nuova società senza che la maggior parte delle persone abbia raggiunto una grande consapevolezza socialista ed ecologica grazie alle loro lotte, alla propria autoistruzione e alla propria esperienza sociale. Pertanto, è ragionevole credere che potranno essere corretti errori gravi, comprese decisioni incompatibili con le esigenze ambientali. In ogni caso, possiamo chiederci se le alternative – il mercato spietato, una dittatura ecologica di “esperti” – non siano molto più pericolose del processo democratico, con tutti i suoi limiti …   Certo, per pianificare il lavoro, ci devono essere organi esecutivi e tecnici in grado di attuare decisioni, ma la loro autorità sarebbe soggetta al controllo permanente e democratico esercitato dai livelli inferiori, in cui il processo di amministrazione democratica ha luogo attraverso l’autogestione dei lavoratori. Naturalmente non ci si può aspettare che la maggior parte della popolazione trascorrerà tutto il proprio tempo libero in autogestione o riunioni partecipative. Come ha osservato Ernest Mandel: “L’autogestione non ha l’effetto di sopprimere la delega, ma è una combinazione tra il processo decisionale da parte dei cittadini e il rigoroso controllodei delegati da parte dei rispettivi elettori […]” [4].

Un lungo processo non privo di contraddizioni

La transizione dal “progresso distruttivo” del sistema capitalista all’ecosocialismo è un processo storico, una trasformazione rivoluzionaria e permanente della società, della cultura e delle mentalità; e la politica, nel senso lato così come è stata definita sopra, è innegabilmente al centro di questo processo. È importante precisare che tale evoluzione non può avvenire senza un cambiamento rivoluzionario delle strutture sociali e politiche e senza il sostegno attivo al programma ecosocialista di una ampia maggioranza della popolazione. La presa di coscienza socialista ed ecologica è un processo i cui fattori decisivi sono le lotte e l’esperienza collettiva delle popolazioni, che, partendo da contrapposizioni parziali a livello locale, progrediscono verso una prospettiva di cambiamento radicale nella società.   Alcuni ecologisti ritengono che l’unica alternativa al produttivismo sia quella di porre fine alla crescita nel suo insieme o di sostituirla con una crescita negativa, chiamata in Francia “decrescita”. Per fare questo, occorrerebbe ridurre drasticamente l’eccessivo livello di consumo della popolazione e rinunciare alle singole case, al riscaldamento centralizzato e alle lavatrici, tra l’altro, per dimezzare il consumo di energia. Dato che queste misure di austerità draconiane e altre simili potrebbero essere molto impopolari, alcuni sostenitori della decrescita giocano con l’idea di una sorta di “dittatura ecologica” [ 5]. Contro tali punti di vista pessimistici, alcuni socialisti sviluppano al contrario un ottimismo che li porta a credere che il progresso tecnico e l’uso di fonti di energia rinnovabili consentiranno una crescita e una prosperità illimitata in modo che tutti potranno ricevere “in base alle loro esigenze”.   Dal mio punto di vista, queste due scuole condividono una concezione puramente quantitativa della “crescita” – positiva o negativa – e dello sviluppo delle forze produttive. Penso che esista una terza posizione che mi sembra più appropriata: una vera trasformazione qualitativa dello sviluppo. Questo implica la fine del mostruoso spreco di risorse causato dal capitalismo, che si basa sulla produzione su larga scala di prodotti inutili e/o dannosi. L’industria delle armi è un buon esempio, così come tutti quei “prodotti” fabbricati nel sistema capitalista – con la loro obsolescenza pianificata – che non hanno altra utilità se non quella di creare profitti per le grandi aziende.   Pertanto il problema non sta tra “un consumo eccessivo” in astratto, ma piuttosto nel tipo di consumo dominante le cui caratteristiche principali sono: proprietà ostentata, spreco massiccio, accumulo ossessivo di merci e acquisizione compulsiva di pseudo novità imposte dalla “moda”. Una nuova società orienterebbe la produzione verso il soddisfacimento di bisogni autentici, a partire da quelli che potrebbero essere definiti come “biblici” – acqua, cibo, vestiti e abitazioni – e includendo i servizi essenziali: la salute, istruzione, cultura e trasporti.   È evidente che i paesi in cui queste esigenze sono lungi dall’essere soddisfatte, vale a dire i paesi dell’emisfero meridionale, dovranno “svilupparsi” molto di più – per costruire ferrovie, ospedali, fognature e altre infrastrutture – rispetto ai paesi industrializzati, ma questo dovrebbe essere compatibile con un sistema di produzione basato su energia rinnovabile e quindi non dannoso per l’ambiente. Questi paesi dovranno produrre grandi quantità di cibo per le loro popolazioni già colpite dalla carestia, ma – come hanno sostenuto per anni i movimenti degli agricoltori organizzati a livello internazionale dalla rete della Via Campesina – si tratta di un obiettivo molto più facile da raggiungere attraverso l’agricoltura biologica contadina organizzata da unità familiari, cooperative o aziende collettive, che con i metodi distruttivi e antisociali dell’industria dell’agrobusiness, il cui principio è l’uso intensivo di pesticidi, di sostanze chimiche e di OGM.   L’attuale odioso sistema di debito e lo sfruttamento imperialista delle risorse del Sud da parte dei paesi capitalisti e industrializzati lascerebbe il posto a un’ondata di supporto tecnico ed economico dal nord vero il sud. Non sarebbe necessario – come credono alcuni ecologisti puritani ed ascetici – ridurre, in termini assoluti, il tenore di vita delle popolazioni europee o nordamericane. Queste popolazioni dovrebbero semplicemente sbarazzarsi di prodotti inutili, quelli che non soddisfano alcun bisogno reale e il cui consumo ossessivo è supportato dal sistema capitalista. Riducendo il consumo, ridefinirebbero il concetto di standard di vita per far posto a uno stile di vita che in realtà è più ricco.   Come distinguere i bisogni autentici dai bisogni artificiali, falsi o simulati? L’industria pubblicitaria – che esercita la sua influenza sui bisogni attraverso la manipolazione mentale – è penetrata in tutte le sfere della vita umana nelle moderne società capitaliste. Tutto è modellato secondo le sue regole, non solo cibo e abbigliamento, ma anche settori diversi come lo sport, la cultura, la religione e la politica. La pubblicità ha invaso le nostre strade, le nostre cassette postali, i nostri schermi televisivi, i nostri giornali e i nostri paesaggi in modo insidioso, permanente e aggressivo. Questo settore contribuisce direttamente alle abitudini di consumo eccessive e compulsive. Inoltre, provoca uno spreco fenomenale di petrolio, elettricità, orario di lavoro, carta e prodotti chimici, tra le altre materie prime, tutte pagate dai consumatori. È un ramo della “produzione” che non è solo inutile dal punto di vista umano, ma è anche in contrasto con bisogni sociali reali. Mentre la pubblicità è una dimensione indispensabile in un’economia di mercato capitalista, non avrebbe senso in una società in transizione verso il socialismo. Sarebbe sostituito da informazioni sui prodotti e servizi forniti dalle associazioni dei consumatori. Il criterio per distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale sarebbe la sua permanenza dopo la soppressione della pubblicità. È chiaro che per qualche tempo le abitudini di consumo passate persisteranno perché nessuno ha il diritto di dire alle persone di cosa hanno bisogno. Il cambiamento dei modelli di consumo è infatti un processo storico e una sfida educativa.   Alcuni prodotti, come l’auto privata, sollevano problemi più complessi. Le autovetture private sono un problema pubblico. A livello globale, uccidono o mutilano centinaia di migliaia di persone ogni anno. Inquinano l’aria nelle grandi città – con conseguenze dannose per la salute dei bambini e degli anziani – e contribuiscono notevolmente ai cambiamenti climatici. D’altra parte, l’auto soddisfa i bisogni reali nelle attuali condizioni del capitalismo. Nelle città europee in cui le autorità sono preoccupate per l’ambiente, le esperienze locali – approvate dalla maggioranza della popolazione – dimostrano che è possibile limitare gradualmente il posto dell’auto privata per privilegiare l’uso di mezzi pubblici come l’autobus e il tram. In un processo di transizione verso l’ecosocialismo, il trasporto pubblico sarebbe notevolmente ampliato e reso gratuito – sia a terra che sotterraneo – mentre sarebbero protetti i percorsi per pedoni e ciclisti. Di conseguenza, l’auto individuale occuperebbe un ruolo molto meno importante rispetto alla società borghese in cui l’auto è diventata un prodotto feticcio promosso da una pubblicità insistente e aggressiva. L’auto è un simbolo di prestigio, un segno di identità (negli Stati Uniti, la patente di guida è la carta d’identità riconosciuta). È al centro della vita personale, sociale ed erotica. In questa transizione verso una nuova società, sarà molto più facile ridurre drasticamente il trasporto stradale di merci – responsabile di tragici incidenti e del livello di inquinamento troppo elevato – per sostituirlo con il trasporto ferroviario o su rotaia: solo l’assurda logica della «competitività» capitalista spiega l’attuale sviluppo del trasporto di merci su strada tramite camion.     Di fronte a queste proposte, i pessimisti risponderanno: sì, ma gli individui sono motivati da infinite aspirazioni e desideri che devono essere controllati, analizzati, respinti e persino repressi se necessario. La democrazia potrebbe quindi essere soggetta a determinate restrizioni. Tuttavia l’ecosocialismo si basa su un presupposto ragionevole, già sostenuto da Marx: il predominio dell’”essere” sull’”avere” in una società non capitalista, vale a dire il primato del tempo libero sul desiderio di possedere innumerevoli oggetti: la realizzazione personale attraverso reali attività, culturali, sportive, ricreative, scientifiche, erotiche, artistiche e politiche.   Il feticismo della merce incoraggia l’acquisto compulsivo attraverso l’ideologia e le specifiche pubblicità del sistema capitalista. Non ci sono prove che questo faccia parte dell’”eterna natura umana”. Ernest Mandel lo ha sottolineato: “L’accumulo permanente di beni sempre più numerosi (la cui” utilità marginale” diminuisce) non è affatto una caratteristica universale o permanente del comportamento umano. Una volta soddisfatti i bisogni di base, le motivazioni personali si evolvono verso lo sviluppo di talenti e inclinazioni gratificanti per se stessi, la conservazione della salute e della vita, la protezione dei bambini, lo sviluppo di relazioni sociali arricchenti…” [6].   Come accennato in precedenza, ciò non significa, soprattutto durante il periodo di transizione, che i conflitti saranno inesistenti: tra esigenze di protezione ambientale e esigenze sociali, tra obblighi ecologici e necessità di sviluppare infrastrutture di base, soprattutto nei paesi poveri, tra le abitudini di consumo popolari e la mancanza di risorse. Una società senza classi sociali non è una società senza contraddizioni o conflitti. Questi sono inevitabili: sarà compito della pianificazione democratica, liberata dai vincoli del capitale e del profitto, risolverli attraverso discussioni aperte e pluralistiche che consentano la società stessa di adottare decisioni da una prospettiva ecosocialista. Una simile democrazia, comune e partecipativa, è l’unico mezzo, non per evitare errori, ma per correggerli da parte della collettività sociale stessa.   Sognare un socialismo verde o addirittura, nelle parole di alcuni, un comunismo solare, e lottare per questo sogno, non significa che non stiamo cercando di applicare riforme concrete e urgenti. Se non dobbiamo avere illusioni sul “capitalismo pulito”, si dovrebbe tuttavia cercare di guadagnare tempo e imporre alle autorità pubbliche alcuni cambiamenti elementari: una moratoria generale sugli organismi geneticamente modificati, una drastica riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, una severa regolamentazione della pesca industriale e dell’uso di pesticidi come sostanze chimiche nella produzione agroindustriale, un maggiore impulso del trasporto pubblico, la sostituzione graduale del trasporto su ruote delle merci con quello ferroviario.   Queste urgenti esigenze eco-sociali possono portare a un processo di radicalizzazione, a condizione che non siano adattate ai requisiti di “competitività”. Secondo la logica di ciò che i marxisti chiamano un “programma di transizione”, ogni piccola vittoria, ogni avanzamento parziale porterà immediatamente a una domanda più elevata, a un obiettivo più radicale. Queste lotte su questioni concrete sono importanti, non solo perché le vittorie parziali sono utili in se stesse, ma anche perché contribuiscono alla consapevolezza ecologica e socialista. Inoltre, queste vittorie promuovono l’attività e l’auto-organizzazione dal basso: sono due pre-condizioni necessarie e decisive per realizzare una trasformazione radicale, vale a dire rivoluzionaria, del mondo.   Non ci saranno trasformazioni radicali finché le forze impegnate in un programma radicale, socialista ed ecologico non saranno egemoniche, nel senso inteso da Antonio Gramsci. In un certo senso, il tempo è il nostro alleato, perché stiamo lavorando per l’unico cambiamento in grado di risolvere i problemi ambientali, la cui situazione non fa che aggravarsi a causa di minacce – come i cambiamenti climatici – che sono sempre di più più vicine. D’altra parte, il tempo sta per scadere e in pochi anni – nessuno può dire quanto – il danno può essere irreversibile. Non c’è motivo di ottimismo: il potere delle attuali élite a capo del sistema è immenso e le forze dell’opposizione radicale sono ancora modeste. Eppure, quest’ultime sono l’unica speranza che abbiamo per porre un freno al «progresso distruttivo» del capitalismo.

*Come Rproject abbiamo già pubblicato un articolo dell’autore dal titolo “Ecosocialismo e pianificazione democratica”.Note  [1]  N. Klein,   Plan B for the planet: the Green New Deal,  Parigi, Actes sud, 2019, p. 117.   [2]  K. Marx,   Das Kapital , Volume 3, Berlino: Dietz Verlag, 1968, p. 828 e volume 1, pag. 92.  [3]  E. Mandel,   Potere e denaro , Verso, Londres, 1991, p. 209.  [4]  E. Mandel,   Potere e denaro, op. cit. , p. 204.  [5]  Il filosofo tedesco Hans Jonas ( Il principio di responsabilità, Éd. Du Cerf, 1979) ha sollevato la possibilità di una “tirannia benevola” per salvare la natura, e l’ecofascista finlandese Pentti Linkola ( Voisiko elämä voittaa. Helsinki, Tammi , 2004) era a favore di una dittatura in grado di impedire qualsiasi crescita economica.   [6]  E. Mandel,   Potere e denaro, op. cit ., p. 206.

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