di Dario Manni

C’è questa striscia online nota come “Mr. Gotcha” che, con la forza sintetica di quattro vignette e sette “nuvole” di dialoghi in inglese, illustra come la pretesa di coerenza individuale uccida il progresso sociale e finisca per essere un’arma della conservazione. Prima vignetta. Un solo personaggio raffigurato, intento a digitare e pubblicare un post critico nei confronti di Apple, che dice: «Gli AirPods di Apple costano 159 dollari, ma Apple non paga le tasse né salari decenti ai suoi lavoratori nelle fabbriche cinesi!». Seconda vignetta. Come dal nulla, sbuca un altro personaggio, sorriso sbilenco e occhi socchiusi, mani a pistola rivolte verso l’autore del post. Si tratta di “Mr. Gotcha”. Dice: «… e lo hai scritto con un iPhone. Beccato!». Terza vignetta, cambio di ambientazione. A giudicare dalla vecchia automobile sullo sfondo, siamo probabilmente fra gli anni ’30 e i ’50 del secolo scorso. Qualcuno dice che le automobili dovrebbero avere le cinture di sicurezza. Sulla destra, a metà dell’altezza della vignetta, come sospeso in aria perpendicolarmente al terreno, riappare Mr. Gotcha. Stavolta dice: «Eppure ne hai comprata una [di automobile, NdA]. Ma quanto sei ipocrita? Fregato.». Quarta – e ultima – vignetta. Qui il ridicolo, precedentemente solo suggerito, è finalmente palesato. Siamo in qualche punto del Medioevo, sullo sfondo c’è un castello merlato. In primo piano quel che sembra un contadino emaciato, un servo della gleba o uno schiavo, che trasporta a spalla un fascio di rami. Dice: «Dovremmo migliorare la società, in qualche modo.». Sorreggendosi con i gomiti al bordo di un pozzo, il corpo dentro e solo la testa, le braccia e le spalle fuori, ecco di nuovo Mr. Gotcha che, con un sorriso a trentadue denti e gli occhi sgranati, dice: «Eppure tu fai parte della società. Strano!». E a chiosare: «Sono molto intelligente».

La delegittimazione delle istanze di cambiamento e di miglioramento della società ha radici profonde. Senza andare troppo a ritroso nel tempo: negli Stati Uniti dei primi anni ’50, la combinazione di Guerra fredda e maccartismo estromise il partito comunista dalla vita politica del Paese, rendendolo illegale, criminalizzando i suoi membri e proibendo ogni azione a supporto del comunismo. Un colpo tremendo, dal quale le forze socialiste statunitensi, che erano sulla cresta dell’onda fino a prima della Seconda guerra mondiale, non si ripresero mai. Per i persecutori – fra i quali i liberali, che appoggiarono con entusiasmo i conservatori guidati dall’allora presidente Eisenhower – essere comunista, fra le altre cose, contraddiceva il fatto di vivere negli Stati Uniti e godere della relativa libertà e del benessere ivi assicurati. Come dicevano i liberali ai residenti critici della Germania dell’Ovest, la risposta nei confronti delle idee considerate meno che patriottiche dall’establishment repubblicano era “Vai a Est!”. Cioè dai comunisti. “Eppure tu fai parte della società”, come dice Mr. Gotcha.

Non c’è bisogno di soffermarsi sulla pretestuosità di queste critiche. I repubblicani diffondevano e strumentalizzavano un odio per il comunismo così vivo negli Stati Uniti del Communist Control Act[i] (forse per via della paura della guerra contro una superpotenza che avrebbe dato filo da torcere al gigante a stelle e strisce), che ogni critica allo status quo era interpretata come un tradimento. L’argomento si faceva ad hominem: quel che importava non erano la verità o la falsità del contenuto delle affermazioni di chi chiedeva maggiore giustizia sociale, né se tale contenuto fosse condivisibile o meno; bensì era che chi affermava quel contenuto era ipocrita, “quindi” non valeva la pena di prenderlo sul serio. Oggi, accuse analoghe vengono rivolte agli attivisti e alle attiviste per il clima e la giustizia climatica. Quando Fridays for Future fa sciopero per il clima o quando Ultima Generazione imbratta il Senato, si alza puntualmente il coro beghino “Però poi mangiano da McDonald’s/usano l’automobile/adoperano lo smartphone”. Che sono tutte cose vere (anche se accadono molto meno spesso di quanto imputato dai detrattori) ma sono anche quasi insignificanti per giudicare della giustezza, della verità, della condivisibilità delle loro istanze. Non si tratta nemmeno tanto di ricordare che non c’è nessuno che non sia almeno un po’ ipocrita (secondo una tradizione per molti versi lontana da quella comunista, “Scagli la prima pietra chi è senza peccato”). A differenza di quanto avveniva negli U.S.A. durante il maccartismo, infatti, di solito l’obiettivo di certe critiche non è rivendicare la superiorità morale rispetto all’opponente; ma eliminare del tutto il senso dell’alto e del basso, della superiorità e dell’inferiorità in fatto morale. Persa l’illusione della propria purezza, si dà per scontato che tutti siano impuri allo stesso modo; chi sembra evadere da questo schema e volare un po’ più in alto degli altri, viene afferrato per i piedi e trascinato nel fango. Ancora diverso è l’utilizzo dell’argomento della coerenza individuale operato da buona parte del mondo vegano e antispecista. In questo caso la mancanza di coerenza squalifica addirittura chi si pone positivamente nei confronti della lotta per i diritti e la liberazione animale, ma continua a mangiare prodotti animali e derivati e a sfruttare in altri modi gli animali non umani. A questo proposito, utilizzando il mio canale Instagram, ho condotto un piccolo, per nulla scientifico esperimento. Tramite un sondaggio ho chiesto ai miei e alle mie followers se fossero d’accordo o meno con la seguente affermazione: “Se sei antispecista non mangi mai prodotti animali”. Nonostante la perentorietà dell’affermazione (non mangiare mai, che poteva giustificare eccezioni anche involontarie al consumo di prodotti animali e derivati animali) e nonostante i miei e le mie followers siano più orientate della media delle persone vegane e antispeciste verso l’antispecismo politico[ii], il numero delle risposte affermative (72% sul totale) ha surclassato quello delle risposte negative (28%). Eppure, come scrive il filosofo Marco Maurizi: «… nessuno può fino in fondo essere antispecista in un mondo come il nostro che vive, di fatto, sullo sfruttamento degli umani e dei non-umani».[iii]

La scelta vegan, non incidendo sensibilmente sulla sfera della produzione (se non altro perché le persone vegane sono una netta minoranza della popolazione mondiale e perché non sono sufficientemente coordinate fra loro in modo da concentrarsi su boicottaggi mirati e, quindi, dotati di qualche efficacia), «non è tanto “logica”, quanto “emotiva”: si smette di mangiare carne perché non si sopporta l’idea che alla carne sia legata la sofferenza di un altro essere animale. Ma in quanto tale, cioè dettata da un istinto di compassione, la scelta vegan non può essere “necessaria”, perché è per definizione non-calcolabile e non prescrivibile».[iv] Il che non significa essere giustificati, come Mr. Gotcha, a non provare affatto (e a non provarci con la necessaria convinzione) a cambiare il proprio stile di vita in senso vegan. Significa però che l’adozione di uno stile di vita vegan coincide solo parzialmente con l’adozione di una prospettiva teorica e politica antispecista. Se è vero, infatti, che non sarà la conversione dei “cuori” uno ad uno in una società in cui la legge fondamentale è proprio quella dell’indurimento dei cuori a liberare gli altri animali[v], non è rivendicando maggiore coerenza che l’antispecismo centrerà i suoi obiettivi. Non è perfezionandosi per non farsi cogliere più in errore dai Mr. Gotcha dell’antiveganismo che diffonderemo le ragioni e la lotta per la liberazione animale. Né lo faremo criticando chi intraprende un percorso di conoscenza e – anche, e solo in secondo luogo – di cambiamento dei propri consumi incespicando e, magari, cadendo in contraddizione. Invece, sarà solo rifiutando il paradigma della coerenza, svelandolo per il ricatto che è e rivendicando le nostre imperfezioni, anche le più dolorose (e per questo pienamente umane, anzi: pienamente animali) che avremo qualche possibilità di uscire dal recinto dell’identitarismo in cui ci siamo confinati.

Lungi dal pretendere la piena e perfetta adesione a uno stile di vita vegan, l’antispecismo politico sa che non si può essere propriamente antispecisti in una società specista. «Si può però volerlo fino in fondo, cioè voler agire fin da ora perché un mondo senza dominio si realizzi». Il riconoscimento del carattere sistemico dello sfruttamento animale non implica né giustifica il disimpegno individuale. Semmai, esso riequilibra l’impegno personale distribuendolo meno sul cambiamento del proprio stile di vita e più sul cambiamento delle condizioni sociali materiali che producono e riproducono lo sfruttamento animale, continuando comunque a «fare tutto il possibile perché la libertà e la giustizia valgano per quanti più esseri viventi possibili»[vi].

 

[i] Congress passes Communist Control Act – HISTORY

[ii] Con “antispecismo politico” si intende la corrente di pensiero che origina all’incirca dal lavoro del socialista Ted Benton e trova espressione compiuta in quello del filosofo italiano Marco Maurizi (cfr. per esempio il suo Antispecismo politico. Scritti sulla liberazione animale, ed. Ortica, Aprilia, 2022). In generale, si tratta di recuperare all’antispecismo la dimensione sociale dello sfruttamento animale, cioè la considerazione dei fattori trans-individuali, non etici ma, piuttosto, economici, che caratterizzano tale sfruttamento. Questo recupero, che nelle elaborazioni socialiste come quelle di Maurizi avviene all’insegna del rifiuto dell’individualismo e dell’idealismo metodologico, e verso la prospettiva del materialismo storico, secondo gli autori e le autrici della corrente politica permette di comprendere meglio le cause del dominio umano sugli altri animali, incluso il pregiudizio specista che li discrimina, e quindi rende possibile il loro superamento e la liberazione animale. Nell’antispecismo politico, infine, il focus non è sui comportamenti individuali, che sono sempre trattati come parti emerse di abiti sociali pervasivi, molto più grandi dei singoli individui che li “vestono” e li riproducono; ma sulla sfera della produzione, da cui originano i modelli di consumo e gli stili di vita. Si tratta quindi di assumere il controllo della produzione – e dei suoi mezzi – per condurre il consumo fuori da logiche speciste.

[iii] Ivi, pag. 77

[iv] Ivi, pag. 52

[v] Ivi, pp. 37, 38

[vi] Ivi, pag. 77

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