di Güney Işıkara and Özgür Narin – Traduzione di Cristina Ambrosi (RES)

Il dialogo, o polemica, a seconda dei punti di vista, tra i sostenitori della decrescita e quelli del socialismo negli ultimi anni ha portato ad una parziale convergenza che trova espressione nei contributi in tempi recenti volti alla sintesi.1 Allo stesso tempo, persistono delle differenze salienti tra le due correnti, le quali sono altamente eterogenee al loro interno. Tali differenze riguardano i loro immaginari su come superare il capitalismo e su con che cosa sostituirlo, cosa che si può facilmente evincere dalle rispettive nomenclature impiegate, vale a dire un futuro post-capitalista di decrescita e il socialismo.

Da un certo punto di vista, il capitalismo può essere visto come una produzione generalizzata di merci in cui singole unità di produzione prendono decisioni indipendenti su cosa e quanto produrre, quale combinazione di input e tecnologie impiegare, come organizzare il processo di produzione e così via. Poiché le singole unità produttive non hanno altra scelta che relazionarsi con il resto del quadro attraverso i loro prodotti, il valore funge da terreno comune, dove le merci vengono equiparate in termini di quantità di manodopera astratta in esse contenuta e dove i differenziali di profitto emergenti forniscono indicazioni sul tasso e sulla direzione di nuovi investimenti. Perseguire il profitto è il principio di regolamentazione, mentre la produzione a livello aggregato è regolamentata man mano che ogni espansione o contrazione in eccesso mette in moto forze che contrastano la deviazione.

Lo sfruttamento, la reificazione delle relazioni sociali, il feticismo della merce, nonché un’interruzione sempre più intensa del rapporto metabolico con la natura non umana sono parti integranti del processo di (ri)produzione sopra sinteticamente descritto. Esistono tutti in forma embrionale nelle singole unità di produzione sotto forma di estrazione del valore eccedente o di sfruttamento della manodopera. Pertanto, un’alternativa sistemica al capitalismo deve sorgere al di sopra delle diverse relazioni sociali e offrire un insieme di meccanismi e processi per regolare e coordinare l’insieme complesso e interdipendente di attività al fine della riproduzione della vita nelle sue varie dimensioni.

La pianificazione è una di queste alternative con una lunga storia di discussioni teoriche e applicazioni pratiche su varie scale. Fino a poco tempo fa, tuttavia, la letteratura sulla decrescita si era tenuta nettamente a distanza dall’idea di pianificazione. Infatti, la trasformazione futura veniva delineata nei termini di ciò che una delle fonti di ispirazione per la decrescita, André Gorz, ha definito come “riforme non riformiste”, le quali trovano la loro manifestazione al giorno d’oggi in proposte come il reddito universale di base, la riduzione dell’orario di lavoro, la finanza pubblica, il recupero e l’espansione della proprietà collettiva, la condivisione e la localizzazione della produzione, eccetera.2 Tralasciando la questione della loro compatibilità con la produzione di merci basata sull’accumulo, tali riforme non offrono nemmeno lontanamente un’alternativa al ruolo di coordinamento dei mercati sulla produzione.

In passato, la pianificazione come un modo radicalmente diverso di organizzare e coordinare la produzione e la riproduzione sociale è stata raramente trattata nella letteratura sulla decrescita. Ciò è cambiato con i pensatori più radicali della decrescita che si sono sempre più occupati della questione della pianificazione. Di seguito, ci concentriamo su questioni relative alla pianificazione che, a nostro avviso, costituiscono dei nodi critici della discussione.

Produzione pianificata e tenore di vita

La maggior parte dei pensatori della decrescita concorda sul fatto che la crescita, sia come fatto che come concetto, sia determinata dal capitalismo.3 Si riconosce persino il fatto che la crescita non sia il fattore trainante, bensì un risultato, l’”aspetto superficiale o il ‘feticismo’ di un processo sottostante: l’accumulo di capitale.”4 Ci si aspetterebbe quindi che la sfida e l’ipotesi di una società alternativa si basino sulla negazione del capitalismo come modalità di produzione. Invece, la crescita rimane il punto focale della discussione.

L’enfasi posta sulla crescita come fenomeno aggregato emerso solo con il capitalismo industriale e trasformato in un indiscutibile paradigma economico dopo la seconda guerra mondiale non è banale. Ne deriva che la crescita così come la conosciamo è una crescita capitalistica, o addirittura un accumulo di capitale, costituita da processi di sfruttamento ed espropriazione peculiari del capitalismo, misurati da indicatori progettati da e per le società capitaliste. Perché allora dovremmo preoccuparci così tanto della crescita in quanto tale dal punto di vista di una società socialista (o post-capitalista)? La posizione della decrescita incanta e affascina gli immaginari individuali e sociali, i movimenti politici, i partiti e i progetti, compreso quello del socialismo: “La crescita nasce dal capitalismo, ma il figlio ha superato il genitore, con la ricerca della crescita che sopravvive all’abolizione delle relazioni capitaliste nei paesi socialisti.”5

Il trapianto della crescita dal suo contesto storico capitalista in un futuro socialista, e quindi la problematizzazione della crescita in quanto tale – che presumibilmente trascende le relazioni sociali su cui si fondano le società – può essere giustificato solo a una condizione: se tutta la crescita, indipendentemente dalle relazioni sottostanti degli esseri umani sia con altri esseri umani che con la natura non umana, può essere vista come omogenea, o almeno significativamente simile. Questo è esattamente ciò che Giorgos Kallis propone: “la crescita socialista non può essere sostenibile, perché nessuna crescita economica può essere ecosostenibile. La crescita del tenore di vita materiale richiede una crescita dell’estrazione dei materiali. Ciò è inevitabilmente dannoso per l’ambiente e alla fine mina le condizioni di produzione e riproduzione”6

La conclusione logica di questa argomentazione è che tutta l’attività umana che comporta l’estrazione, la trasformazione e l’uso di materiali – cioè tutta la produzione umana – è in diretto conflitto con l’ambiente in quanto la prima danneggia inevitabilmente quest’ultimo. Si tratta di una regressione al materialismo grezzo fondato sulla binarietà in opposizione tra loro di natura e società. Secondo Kallis, questo conflitto diventa insostenibile se il tenore di vita materiale continua a crescere. Tuttavia, la crescita viene intesa ancora nella sua accezione nel contesto capitalista, ovvero un processo di accumulo.

La differenza qualitativa tra socialismo e capitalismo come due distinte modalità di produzione è molto rilevante qui. La funzione primaria della produzione nel socialismo è quella di fornire a tutti i cittadini valori d’uso per soddisfare uno standard universale dei bisogni di base (essenziali), che determina la durata della giornata lavorativa necessaria. Ciò comprende non solo una casa, alimenti essenziali, acqua pulita, assistenza sanitaria, istruzione e mezzi pubblici accessibili, ma anche l’assistenza dei bambini e degli anziani, parchi e attività ricreative, servizi culturali e informativi di base, (eventualmente) attività di recupero ambientale e simili.

Una volta che tale insieme di esigenze essenziali è determinato socialmente e mediato politicamente, il numero totale di ore di lavoro (dirette e indirette) socialmente necessarie per produrre questi elementi essenziali può essere facilmente calcolato con l’aiuto di dati input-output per un determinato insieme di tecnologie e processi lavorativi. Tale importo totale potrebbe quindi essere distribuito tra la popolazione in età lavorativa, tenendo conto delle preferenze sociali e politiche, delle disabilità e del principio di rotazione del lavoro. Ciò costituisce l’ambito della necessità o della sfera dell’eteronomia, che costituisce il lavoro di base che ciascun cittadino è tenuto a svolgere per riprodurre un tenore di vita dignitoso universalmente riconosciuto per tutti. Al contempo, è la base per la convivialità di una società egualitaria senza lotta per i beni essenziali.

È bene notare come ogni lavoratore ottenga direttamente la propria quota derivante dalla manodopera dopo la detrazione dei fondi comuni per altre necessità sociali (pianificazione per emergenze, preparazione a catastrofi, investimenti programmati in ricerca scientifica e progresso tecnologico e così via). I lavoratori possono utilizzare i fondi rimanenti della manodopera per acquistare prodotti che vanno oltre i beni strettamente essenziali, il che implica ulteriori ore di lavoro, una volta informati circa il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre l’ulteriore domanda. Per implicazione, lo scambio (anche se non lo scambio di merci) potrebbe avvenire tramite certificati di lavoro digitali. La domanda di beni essenziali sarebbe relativamente stabile nel tempo, mentre il rapporto tra l’offerta e la domanda di prodotti più personali e personalizzati potrebbe essere facilmente monitorato mediante una rete online che collega tutti i negozi e avvisa le agenzie di pianificazione qualora ci fossero cambiamenti o squilibri.

Controllo pianificato del consumo di materie ed energia

La posta in gioco quando si tratta di pianificazione non è il lavoro astratto, alienato e misurato tramite le categorie monetarie peculiari del capitalismo, bensì il lavoro che produce valori d’uso in una rotazione consapevole, volontaria e pianificata. Questo è uno dei tratti distintivi del socialismo nei confronti dei vari immaginari sociali, che non mirano chiaramente ad abolire la produzione capitalista di merci. È sostanzialmente diverso dall’esigere tagli fiscali (o aumenti fiscali per i ricchi), reddito di base universale, o vincoli alla mercificazione da parte di un’autorità alienata e suprema. Non vi è ambiguità derivante da categorie mistificate di produzione e distribuzione (valore e prezzo; salario, interessi, canone e profitto; settori produttivi e improduttivi e così via).

Il processo di pianificazione potrebbe essere guidato da una struttura di consigli nidificati che collegano vari organismi collettivi, dai livelli più bassi a quelli più alti, in cui i lavoratori plasmano e convalidano attivamente diversi aspetti spaziali e settoriali del piano generale. L’uso aggregato di energia e materie può essere gestito in qualsiasi momento da vincoli determinati in modo ricorsivo, che comprendono meccanismi di feedback bottom-up e top-down. Tali vincoli deriverebbero da processi politici di deliberazione alla luce delle conoscenze scientifiche della più ampia gamma possibile di conseguenze delle nostre decisioni, dal perseguimento del principio di precauzione (poiché tale conoscenza è caratterizzata da incertezze), dalla complessità degli ecosistemi e dalla molteplicità dei criteri di valutazione impiegati.7

Nella pianificazione socialista, il fatto che il lavoro sociale non verrebbe più sprecato in settori come il marketing e la pubblicità, la consulenza e i servizi finanziari; le strategie di accumulo come l’obsolescenza pianificata e i rifiuti alimentari cesserebbero di esistere; settori industriali ecologicamente distruttivi (produzione di combustibili fossili, armi, jet privati, SUV e così via) verrebbero ridimensionati o completamente ridotti, oltre alla completa abolizione della disoccupazione e alla partecipazione di tutti i cittadini che lavorano alla produzione e alla fornitura dei beni essenziali di cui sopra, implica che il tempo della manodopera associato all’ambito della necessità sarà significativamente inferiore a otto ore al giorno.

A seconda di quanto sia ristretta o ampia la definizione della categoria dei “beni essenziali”, la sua quota nella sfera produttiva è approssimativamente compresa nell’intervallo tra il 45 e il 70%, con notevoli variazioni tra i paesi.8 Pertanto, un’implicazione diretta di una sterzata consapevole della produzione è una riduzione significativa della produzione di materie ed energia associate alla cessazione o alla graduale eliminazione delle attività sopra menzionate. Questo è un risultato desiderato e atteso condiviso dalla decrescita e dal socialismo. Una linea di demarcazione, tuttavia, persiste quando si tratta di istituzionalizzare la decrescita: La crescita del tenore di vita materiale significa una crescita dell’uso di materiali (e di energia). Che l’economia che produce tale crescita sia capitalista, pre-capitalista o socialista non fa nessuna differenza”9

Riteniamo che il tempo libero in quantità nettamente superiore e l’organizzazione sociale e comunitaria del lavoro riproduttivo, unitamente all’accesso universale ai prodotti essenziali in senso lato (sanità di alta qualità, istruzione, trasporti pubblici, servizi culturali e informativi, parchi e strutture ricreative, oltre ad altri aspetti materiali della vita), rappresentino una crescita del tenore di vita materiale per la stragrande maggioranza della popolazione globale. Ed è qui che i sostenitori della decrescita, adottando una nozione di crescita indifferente alla forma sociale dell’organizzazione, confondono il rapporto tra quantità e qualità, o forse sopprimono la questione della qualità e riducono la discussione alla dimensione quantitativa.

Il punto qui non è che una società socialista produrrebbe di più di tutto, pur non essendo ancora ecologicamente distruttiva a causa della sua distinzione qualitativa. La letteratura sulla decrescita stessa sostiene chiaramente che la questione non è “più o meno?” ma piuttosto “più di cosa e meno di cosa?” Inoltre, è indubbio che in alcune parti del mondo la maggior parte delle attività produttive deve essere ampliata massicciamente per garantire un tenore di vita decente, mentre in altre parti si tratta di modificare la scala, la direzione e la composizione della produzione. In ogni caso, ciò comporta l’abolizione della modalità di produzione capitalista a favore di una formazione sociale in cui la (ri)produzione sociale è pianificata e guidata consapevolmente da lavoratori e cittadini dotati di poteri. Come ammesso dai suoi stessi sostenitori, la decrescita è un progetto su misura per il nord dell’emisfero, dove prevale un modo di vivere di tipo imperialistico. Non è un percorso auspicabile e praticabile invece per il sud del mondo.10

Fuggire dall’entropia?

La lettura di Nicholas Georgescu-Roegen delle questioni economiche da una prospettiva termodinamica, secondo la quale tutti i processi economici sono irreversibili ed entropici, è un fondamento della filosofia della decrescita. I processi naturali si muovono in una direzione definita e comportano un cambiamento qualitativo nella misura in cui tutti i tipi di energia vengono gradualmente trasformati in calore e il calore si dissipa fino a quando non può essere utilizzato.11 La questione se l’universo sia finito e isolato o meno, o se la terra sia un sistema chiuso o isolato, è di per sé interessante e ha implicazioni significative sull’interpretazione della legge dell’entropia in questo contesto.12

Vale la pena notare che il chimico premio Nobel Frederick Soddy scrisse per la prima volta sull’entropia in economia nel 1926. Nel 1944, un altro fisico premio Nobel, Erwin Schrödinger, ha sottolineato come la vita sia entropia negativa. La vita è un’azione contro l’entropia. È organizzarsi contro il disordine. Il celebre matematico e ingegnere Claude Shannon scoprì nel 1948 come anche l’informazione sia una forma di entropia negativa. Ovvero, l’informazione è un ordine fuori dal disordine e trasmette un messaggio. Come l’uomo, in quanto bipede, agisce contro la gravità, anche il nostro vivere, pensare e comunicare agiscono contro l’entropia.

Per la nostra conoscenza attuale, la legge dell’entropia, proprio come la legge della gravità, vale per l’universo osservabile. È stata valida per 13,8 miliardi di anni, l’intera storia dell’universo, e probabilmente continuerà a esserlo anche in futuro. Indipendentemente dalle formazioni sociali e dalle modalità di produzione adottate, l’universo continuerà ad andare verso il disordine. Si può sicuramente utilizzare la legge sull’entropia per sollevare un’obiezione ecologica all’argomento secondo cui non esiste un limite reale alla crescita capitalista composta. Tuttavia, come lo stesso Georgescu-Roegen ha sottolineato, “l’errore cruciale consiste nel non vedere che non solo la crescita, ma anche uno stato a crescita zero, no, persino uno stato di declino che non converge verso l’annientamento, non può esistere per sempre in un ambiente finito”13 Nessuna modalità di produzione gode di una posizione privilegiata agli occhi rigorosi della legge dell’entropia.

Questo è il motivo per cui l’uso dell’entropia distoglie l’attenzione dal vero compito politico di esporre la modalità di produzione capitalista nella sua totalità, e non un concetto transtorico di crescita in quanto tale, come la causa principale delle problematiche sociali, economiche ed ecologiche. Non è utile applicare una legge universale e transtorica della fisica a un dato periodo storico come vincolo ultimo. Concordiamo sul fatto che gli indicatori biofisici siano cruciali e debbano essere presi in considerazione nella produzione pianificata dei valori d’uso. Tuttavia, quando si tratta di presumere che esistano limiti significativi per diversificare le risorse energetiche e aumentare il ritorno energetico sugli investimenti (energetici) in modo sostenibile, perché cadere nello sconforto?14 Perché escludere lo sfruttamento di un enorme flusso di energia sulla superficie terrestre a tassi di efficienza più elevati rispetto alla fotosintesi o alle tecnologie attuali?

La nostra specie è stata in grado di scoprire l’equazione materia-energia di Albert Einstein, perché non dovrebbe essere in grado di applicare questa o altre scoperte in modi diversi? Una società socialista che possa mettere in pratica il suo potenziale in modo consapevole, dove la ricerca e lo sviluppo delle forze produttive non sono guidati dal profitto, ma da decisioni risolute e deliberative dei produttori diretti, non conterebbe certamente sulle tecnologie future per risolvere gli attuali problemi sociali e ambientali, ma anche non escluderebbe e rinuncerebbe alla possibilità di ricercare tali progressi.

Oltre le dicotomie: pianificazione e responsabilizzazione

Come ammettono Matthias Schmelzer, Andrea Vetter e Aaron Vansintjan in una delle rappresentazioni più complete e profonde della decrescita, “la realtà della pianificazione stessa – i suoi attori primari, sia essa centralizzata o decentrata, partecipativa o imposta – viene raramente trattata [dai sostenitori della decrescita].”15 Questa quasi deliberata elusione della questione della pianificazione può essere parzialmente attribuita alla riluttanza diffusa al confronto diretto con il capitalismo come modalità di produzione. In un contributo in Decrescita: un vocabolario per una nuova era (Degrowth: A Vocabulary for a New Era), un testo fondamentale di questo genere di letteratura, tale riluttanza è attribuita a tre fattori: in primo luogo, l’insistenza di influenti pensatori delle decrescita come Serge Latouche di non considerare il capitalismo come il principale oggetto di critica; in secondo luogo, l’importanza attribuita dalla decrescita all’associazione volontaria, all’auto-organizzazione decentrata e orizzontale; e in terzo luogo, un’elusione tattica del bagaglio storico che accompagna l’anticapitalismo esplicito e il socialismo.16

La stessa riluttanza è notevole quando si tratta di questioni quali organizzazione, uso della forza e rivoluzione. Si tratta di una carenza significativa della tesi della decrescita che non può essere trascurata. Sia per quanto riguarda l’infrastruttura energetica e il relativo uso, la produttività, o l’adozione di decisioni autonome in merito alle dimensioni e alla composizione del prodotto sociale, tutte le transizioni in gioco di cui sopra presuppongono un cambiamento sostanziale nelle relazioni di potere che comportano (ma non si limitano a) la proprietà dei mezzi di produzione. La letteratura sulla decrescita sostiene una varietà di strategie come riforme non riformiste, nowtopia (utopie dell’adesso), azioni controegemoniche (blocchi, spazi interstiziali e così via) che possono coesistere in modo simbiotico. Tuttavia, nella maggior parte dei casi viene trascurata la questione dell’organizzazione e del monopolio dello Stato sull’uso della forza.17 I mezzi della resistenza e della lotta, e le “riforme non riformiste” sotto il capitalismo, si ricollegano di solito alla discussione circa le istituzioni e i processi sociali appartenenti a un futuro post-capitalista, mentre la questione della rivoluzione viene comodamente aggirata.

Vi è quindi una tensione tra il crescente interesse per la pianificazione e il socialismo da parte dei pensatori della decrescita da un lato e la riluttanza a contemplare una netta rottura con il capitalismo e a discutere la pianificazione come pilastro centrale di un’alternativa al meccanismo del mercato dall’altro.18 Ci soffermiamo su tre settori che riguardano questa tensione e che si contraddistinguono come dei temi ricorrenti nella letteratura della decrescita: localizzazione, autonomia e deliberazione. Sosteniamo che i pensatori della decrescita richiamino l’attenzione su questioni cruciali, ma che di solito le loro analisi rimangano unilaterali e non riescano ad affrontare la totalità del capitalismo come modalità di produzione e, implicitamente, ad offrire un’alternativa sistemica.

(Ri)localizzazione: Evitare l’unilateralità

La (ri)localizzazione della produzione è uno dei principi fondamentali della decrescita, definita come una “traiettoria in cui il volume di produzione (flussi di energia, materie e rifiuti) di un’economia diminuisce mentre il welfare, o il benessere, migliora.”19 Ciò implica soddisfare le esigenze a livello locale con la produzione locale, o con circuiti produzione-commercio-consumo più brevi.20 Quello che è in gioco è probabilmente più della semplice riduzione di energia e sprechi associati al commercio derivante dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro. Si collega all’altrettanto importante accento posto dalla decrescita sulle strutture decentrate e sull’organizzazione orizzontale, presumibilmente più compatibili con la produzione locale su scala ridotta.

La prima questione riguarda la problematizzazione della scala piuttosto che le relazioni sociali sottostanti. Invece di chiedersi quali relazioni di classe, proprietà e potere diano luogo alle gerarchie ingiustificate attribuite a organizzazioni su larga scala, quest’ultima si considera auto-costituente. Vale tuttavia la pena ricordare l’invito alla prudenza di Murray Bookchin quando si tratta di presumere una relazione diretta tra scala e gerarchia: “Il decentralismo, le comunità su piccola scala, l’autonomia locale, anche il mutuo soccorso e il comunalismo, non sono intrinsecamente ecologici o emancipatori. Poche società erano più decentralizzate del feudalesimo europeo, che di fatto era strutturato intorno a comunità su piccola scala, mutuo soccorso e uso comune della terra. L’autonomia locale era molto apprezzata e l’autarchia costituiva la chiave economica per le comunità feudali. Eppure, il feudalesimo fu gerarchico come poche altre società”21 Qualsiasi insieme di tecnologie semplici o complesse, organizzazioni su piccola o grande scala, o strutture locali, regionali, nazionali e persino globali, non specificate per contesto sociale e contenuti, è necessariamente oppressivo e sfruttatore da un lato, o emancipante dall’altro.

La seconda domanda che emerge da una potenziale localizzazione estesa della produzione è la perdita di produttività associata alla riduzione della scala. Sebbene ciò possa essere accolto con favore dai pensatori della decrescita in generale, poiché la produttività e la produzione su larga scala sono considerate intrinsecamente correlate alla mentalità dell’accumulo di capitale, insistiamo sulla distinzione della produttività del lavoro dalle varie nozioni di efficienza definite da criteri peculiari dell’accumulo di capitale. Il socialismo abbraccia un aumento volontario della produttività del lavoro e lo sviluppo delle forze produttive in generale.22 Una riduzione della produttività del lavoro è in conflitto con un altro obiettivo centrale sia della decrescita che del pensiero socialista, vale a dire la riduzione della giornata lavorativa necessaria per la produzione.

Quest’ultimo punto è stato trattato da Marx come il regno della necessità su cui può sorgere il vero regno della libertà, e come la sfera dell’eteronomia, che non può essere abolita in nessuna formazione sociale, ma può essere organizzata “con la massima efficienza e il minimo dispendio di lavoro e risorse” al fine di garantire “la produzione programmata e pianificata di tutto ciò che è necessario alla vita individuale e sociale.”23 Secondo Gorz e un altro pioniere dello sviluppo, Ivan Illich, la massima espansione della sfera dell’autonomia è condizionata dall’uso di strumenti complessi e tecnologie avanzate nella sfera dell’eteronomia.24 È sorprendente che questa chiara enfasi di due dei più influenti pionieri della decrescita sfugga all’attenzione dei sostenitori contemporanei della decrescita.

Una volta considerata la questione in termini di questa duplice concezione del lavoro, e del rapporto intrinseco tra necessità e libertà, diventa chiaro che ciò che conta sono le relazioni sociali della produzione che condizionano il carattere, la qualità e l’importanza relativa delle due sfere. Ponendo l’accento sulla localizzazione, la questione principale non è la dimensione economica, geografica o amministrativa. Nella maggior parte delle sue forme, si tratta piuttosto di un’argomentazione unilaterale.

L’aspetto locale può diventare emancipante solo se è collocato in una struttura più ampia e interconnessa, regolata e coordinata da organismi collettivi di lavoratori. L’interdipendenza degli organi locali sotto il socialismo non implicherebbe un’asimmetria di potere o una gerarchia tra di questi, caratteristica del capitalismo, ma piuttosto rappresenterebbe la fonte del loro potere collettivo. Ad esempio, le possibili interruzioni nella produzione alimentare e i cambiamenti previsti nelle pratiche agricole a causa della crisi planetaria non verrebbero risolti dall’autosufficienza locale del socialismo, ma piuttosto da una condensazione del coordinamento a livelli più elevati di pianificazione, dove si dispone di un quadro più globale. Lo stesso si può dire per l’espansione e la crescita dei sistemi alimentari agroecologici, il ripristino ambientale e il lavoro di cura della terra.

Le precisazioni di cui sopra non implicano affatto che la localizzazione o il carattere locale non abbiano posto nel socialismo. Riteniamo che il socialismo non sia caratterizzato da una mera sostituzione della proprietà privata dei mezzi di produzione con la proprietà sociale e dall’abolizione della legge del valore a favore della produzione pianificata. Esso comporta anche la responsabilizzazione dei lavoratori e dei cittadini, il cui lavoro è costitutivo della produzione, della riproduzione sociale e dell’ambiente.25 Tale responsabilizzazione rafforza l’autonomia dei produttori diretti, senza tuttavia trascurare la necessità di integrare le località autonome in un ambiente più ampio e armonioso, oltre che di un piano coerente su vari livelli.

Autonomia: verso il capitalismo?

Correlata all’enfasi sulla localizzazione del pensiero della decrescita, vi è la centralità del concetto di autonomia.26 Il legame tra le due sfere è radicato nella convinzione del concetto che, man mano che la scala delle attività economiche cresce, la capacità di autogovernarsi diminuisce. Gorz, che ha coniato il termine décroissance nel 1972, sostiene che ciò che conta non è la struttura gerarchica del processo produttivo in quanto tale, ma gli elementi che rendono tale gerarchia necessaria, vale a dire la scala delle unità produttive, la loro interdipendenza e la divisione di natura tecnica, sociale e regionale del lavoro che ne consegue. Allo stesso modo, Illich sostiene che l’autonomia e l’autogoverno senza la mediazione da parte degli esperti presuppongano sistemi su piccola scala e tecnologie semplici.27 Le strutture sociali e le tecnologie su vasta scala sono in conflitto con l’autonomia e l’autogoverno.

Sulla scia di Cornelius Castoriadis e Latouche, la letteratura della decrescita associa l’autonomia alla consapevolezza da parte del popolo, il quale fa le proprie leggi e la propria storia, piuttosto che delle autorità esterne (come Dio, la Chiesa e i mercati).28 Secondo Latouche, l'”economia” come una sfera apparentemente autonoma con le proprie leggi e tendenze, e in particolare gli scenari di crescita e sviluppo (e non del capitalismo in quanto tale), sono la principale fonte del malfunzionamento.29 Così, solo emancipandosi dalla dipendenza dalla crescita e della produttività e praticando l’auto-limitazione cosciente, le persone potranno stabilire norme, regole e valori, e quindi stabilire l’autonomia e la democrazia.30

Le esperienze di autogestione e autogoverno a livello locale sono preziose e formative. Tuttavia, perseguire l’autonomia come pratica rivoluzionaria in un contesto capitalista presenta dei limiti. La vera autonomia, a pieno titolo, non è possibile in quanto la sfera di autonomia è vincolata e quindi condizionata dalle stesse forze da cui pretende di essere autonoma.31 Se il capitale e lo Stato sono visti come delle entità statiche, gerarchiche e oppressive piuttosto che delle relazioni, e se i processi conflittuali che sono allo stesso tempo agente e risultato di queste relazioni non vengono direttamente affrontati e aboliti, il massimo che si può ottenere è la soppressione dei risultati negativi. E ciò che viene represso ritorna.32

L’autonomia dallo Stato e dal capitale (come relazione sociale) presuppone la persistenza di questi. In quanto tale, il progetto di autonomia afferma l’egemonia del capitale attraverso la sua negazione limitata e parziale, diventando quindi parte integrante di questa egemonia. Ciò non significa rifiutare o sottovalutare preziose esperienze quale La Via Campesina, l’EZLN o l’amministrazione curda autonoma di Rojava e simili. Tutte queste esperienze sono caratterizzate da idiosincrasie e contengono lezioni fondamentali che vale la pena di imparare. Tuttavia, tutte sono accomunate dall’essere circondate, se non assediate, dalle forze sociali, economiche e militari dalle quali vogliono emanciparsi. Evitare le relazioni di mercato e la mercificazione (ovvero lo smantellamento parziale senza abolire la produzione di merci) non significa abolire le relazioni di produzione. Quindi, la questione della totalità del capitalismo come modalità di produzione, compresa la sua forma di stato storicamente specifica, può forse venir soppressa, ma non evitata per sempre.

Il massimo grado possibile di autogestione e autonomia (su diverse scale) è una caratteristica auspicabile ed essenziale di una società socialista. Tuttavia, ciò da cui il “sé” è autonomo è sostanzialmente diverso. Non è la forza inarrestabile dell’accumulo di capitale, né la relazione sociale del capitale che fuoriesce e ingloba tutte le dimensioni dell’essere e della vita, bensì i livelli più alti e centrali di coordinamento, pianificazione e gestione. L’esistenza stessa di questi è un tabù per la maggior parte dei pensatori della decrescita, in quanto associati a strutture gerarchiche che si presume compromettano l’autonomia. L’integrazione di unità locali e inferiori in una struttura nidificata di consigli e istanze di pianificazione, tuttavia, non necessariamente nega o sopprime la sfera locale o la sua autonomia.

Le sfere locale e centrale si prefiggono ciascuna per sé di operare in modo efficace e armonioso: da un lato, in assenza di strutture che supervisionino il sistema nel suo insieme facendo uso di tutte le informazioni disponibili, le unità locali possono cadere nella dissonanza e i disordini che ne derivano possono minacciare l’intero sistema. D’altro canto, sacrificare l’autogestione dei lavoratori a partire dal luogo di lavoro e imporre un processo decisionale puramente centralizzato non solo mette a repentaglio il sistema, riducendo la sua flessibilità e la sua capacità adattativa, ma vanifica anche il contenuto politico del socialismo.33 Il processo politico di autocostituzione e autogestione, chiamato anche deliberazione nella letteratura sulla decrescita, ha bisogno quindi sia istanze autonome che integrate, allo stesso tempo locali e centrali.

Deliberazione: Il lavoratore collettivo si riappropria dell’intelletto generale

Deliberazione significa che le decisioni, anche nel contesto ambientale, sono prese attraverso istituzioni e processi sociali che richiedono la partecipazione di tutte le parti potenzialmente interessate. Soprattutto, questo processo deliberativo implica che le esigenze, i desideri e le valutazioni non vengano dati come scontati, ma che vengano determinati mediante un processo sociale di negoziazione che è costitutivo della soggettività. In altre parole, la deliberazione e l’autogestione non sono meri mezzi, ma sono di per sé anche degli scopi. Un ulteriore vantaggio di tale processo consiste nel far emergere valutazioni divergenti o contrastanti relative a diverse dimensioni dell’ambiente e del prodotto sociale. Ciò è essenziale secondo i pensatori della decrescita, poiché non esiste una scala unica in base alla quale è possibile misurare, esprimere o calibrare vari valori e qualità. L’incommensurabilità del valore d’uso richiede criteri di valutazione multipli in combinazione con le conoscenze scientifiche esistenti.34

Una lacuna delle discussioni sulla deliberazione nella letteratura sulla decrescita è che vi è poca chiarezza su come (o se) le relazioni di potere basate sulla classe saranno trasformate o abolite. Vi è ambiguità sulla questione se il terreno controverso e negoziato delle istituzioni dei meccanismi decisionali democratici sarà ancora basato su interessi di classe in conflitto o su semplici “individui” e “parti interessate” disposti a partecipare. Questo è fondamentale, in quanto tale processo costituisce in realtà la formazione di mezzi organizzativi e la responsabilizzazione delle masse ai fini della partecipazione. Le questioni di deliberazione e pianificazione dipendono in maniera cruciale dal fatto che si sia verificata o meno una rottura con i rapporti esistenti di potere e proprietà (qualora prevista) e da quali siano i mezzi di questa rottura.

Un esempio di auto-organizzazione furono i soviet e i consigli dei lavoratori che si formarono nella lotta di classe al fine di prendere possesso della produzione sociale nel periodo che precedette la Rivoluzione d’ottobre. Il lavoratore collettivo (Gesamtarbeiter), producendo diverse parti della produzione sociale totale, riunitosi nei consigli e nei soviet, formò istituzioni di coordinamento superiore e delegò il controllo sulla produzione ai consigli centrali e alla pianificazione. Questo sistema di delega era diverso dalla pianificazione attraverso il controllo dall’alto verso il basso. La pianificazione centrale non escludeva iniziative, negoziazioni e deliberazioni a livello locale. Inoltre, non era percepita come una questione puramente tecnica basata sui numeri, o designata come area di competenza di alcuni colti studiosi.35

Per una discussione costruttiva con i pensatori della decrescita che si orientano verso una pianificazione deliberativa, vorremmo puntare all’esperienza sovietica come un insieme di lavoratori collettivi, che pianificano su scala, unificano diversi segmenti di lavoratori (produzione, logistica, ingegneri, scienziati, ecc.) al di là degli interessi di parte della loro classe ovvero, tentano di unificare il proletariato nel suo insieme nel controllo della (ri)produzione sociale. Con tutte le sue carenze, così come i suoi punti di forza e i suoi risultati (questi ultimi solitamente trascurati, se non negati, dalla maggior parte dei pensatori della decrescita), questa storia è piena di lezioni per coloro che pensano alla pianificazione come un’alternativa sistemica alla produzione capitalista di merci.

A distanza di un secolo dopo, la portata del lavoratore collettivo si è espansa in modo significativo. Così come si è espansa la conoscenza relativa alla totalità della (ri)produzione sociale. I dati vengono estratti non solo nel processo di produzione, ma anche in altri circuiti del ciclo, dalla produzione al consumo fino alla vita quotidiana sotto forma di estrapolazione dei dati e profilazione dei consumatori. Questo, una volta separato dalla sua forma capitalista, migliora la nostra capacità di immaginare una società alternativa. In special modo, i lavoratori nel loro insieme possono riadattare il processo di produzione e le relative conoscenze. Ciò implica la riappropriazione dell’intelletto generale prodotto dal lavoratore collettivo e dalle sue forme di auto-organizzazione (soviet, assemblee, consigli e simili).

Per quanto riguarda il problema cruciale dei confini ecologici – e le questioni di scala e limiti biofisici – la conoscenza scientifica emerge come un pilastro centrale. È vero che, nelle nostre società capitaliste, la scienza talvolta viene glorificata quale giudice supremo e impiegata per condurre le persone in gregge, mentre in altre occasioni viene ignorata del tutto, a seconda di ciò che favorisce l’accumulo di capitale. Tuttavia, correnti emergenti come la comunicazione scientifica, la comprensione pubblica della scienza, la scienza aperta, la scienza dei cittadini e i movimenti del software libero rappresentano un’alternativa ancora in stato embrionale. Le decisioni in materia ambientale, e implicitamente, le decisioni sulla produzione, devono essere basate sulla scienza, ma rimangono principalmente processi sociali e politici. Il processo di deliberazione deve coinvolgere assemblee di lavoro collettivo, consigli uniti che rappresentano la (ri)produzione della vita, compresi i lavoratori in campo scientifico e altri lavoratori che hanno acquisito la conoscenza della produzione socializzata.

Ciò che viene definito deliberazione nella letteratura sulla decrescita è, in ogni caso, un principio centrale di responsabilizzazione dei lavoratori. La coesistenza e i conflitti di interessi delle parti, i processi politici attraverso i quali tali interessi e valutazioni (del prodotto sociale, degli impatti ambientali e simili) sono mediati e il modo in cui le agenzie vengono costituite e avviate, devono essere discussi e analizzati nella pratica dai movimenti reali. Tuttavia, altrettanto importanti sono le strutture e i processi che supervisioneranno la fattibilità e faciliteranno l’adattamento del sistema generale in caso di forti conflitti e di possibili ostruzioni, come nel caso dei contadini diventati proprietari dopo il 1917 e il 1949. Le questioni correttamente identificate come cruciali (autonomia e deliberazione) dalla decrescita erano presenti anche nelle esperienze pratiche di pianificazione socialista del ventesimo secolo. È indubbio che vi siano state gravi carenze ed errori. Ciò, tuttavia, non dovrebbe essere una scusa per prendere le distanze dal socialismo, ma piuttosto un’opportunità per imparare da esso.

Una società egualitaria alternativa non può essere il disegno dell’intelletto. Deve basarsi su movimenti e conflitti esistenti e reali e deve essere il risultato delle premesse attualmente esistenti. La decrescita identifica e attinge da vari movimenti e pratiche, spazi autonomi e laboratori che costruiscono il potere e la controegemonia degli individui, tutti molto preziosi. Tuttavia, ciò che manca è una visione e un impegno marcatamente di stampo rivoluzionario per affrontare la modalità capitalista di produzione nella sua totalità. Pur non essendo oggetto di questo pezzo, la decrescita rimane ambigua per quanto riguarda le questioni dell’organizzazione, dell’uso della forza e del momento rivoluzionario di rottura. Per quanto riguarda i meccanismi e i processi di pianificazione che vanno a sostituire la produzione capitalista di merci, si evita di affrontare la necessità di costruire e integrare istanze locali autonome con istanze centrali su vasta scala. Feticizza la crescita, la trapianta dal suo contesto capitalista, non riuscendo quindi a cogliere le differenze qualitative tra capitalismo e socialismo come modalità distinte di produzione.

Tutto questo non significa che il socialismo e la decrescita siano assolutamente incompatibili. Vi sono tuttavia importanti discrepanze nei mezzi e nei fini, che meritano di essere discussi. Ci auguriamo che questo pezzo contribuisca a tale considerazione e dibattito.

 

NOTE

  1. Michael Löwy, “Ecosocialism and/or Degrowth?,” Climate and Capitalism, October 8, 2020; Michael Löwy, Bengi Akbulut, Sabrina Fernandes, and Giorgos Kallis, “For an Ecosocialist Degrowth,” Monthly Review 73, no. 11 (April 2022): 56–58; Jason Hickel and Samuel Miller-McDonald, “Ecosocialism is the Horizon, Degrowth is the Way: A Review of Less Is More and an Interview with Jason Hickel,” The Trouble (blog), February 11, 2021; Paul Murphy and Jess Spear, “The Necessity of Ecosocialist Degrowth,” Global Ecosocialist Network, June 4, 2022; Timothée Parrique and Giorgos Kallis, “Socialism without Growth,” Brave New Europe (blog), February 10, 2021.
  2. André Gorz, Strategies for Labor (Boston: Beacon, 1967); Ekaterina Chertkovskaya, Alexander Paulsson, and Stefania Barca, Towards a Political Economy of Degrowth (New York: Rowman & Littlefield, 2019); Jason Hickel, Less Is More (London: Windmill Books, 2020); Giorgos Kallis, Degrowth (Newcastle: Agenda, 2018); Giorgos Kallis, Susan Paulson, Giacomo D’Alisa, and Federico Demaria, The Case for Degrowth (Cambridge: Polity, 2020).
  3. Hickel, Less Is More; Matthias Schmelzer, The Hegemony of Growth (Cambridge: Cambridge University Press, 2017).
  4. Kallis, Degrowth, 73.
  5. Kallis, Degrowth, 73.
  6. Giorgos Kallis, “Socialism without Growth,” Capitalism Nature Socialism 30, no. 2 (2017), 190.
  7. Planning for Entropy, “Democratic Economic Planning, Social Metabolism and the Environment,” Science & Society 86, no. 2 (2022): 291–313.
  8. These figures include the production of means of production necessary to produce the essentials. Details can be found in Güney Işıkara, “The Weight of Essentials in Economic Activity,” Review of Radical Political Economics 53, no. 1 (2021): 95–115.
  9. Giorgos Kallis “Capitalism, Socialism, Degrowth: A Rejoinder,” Capitalism Nature Socialism 30, no. 2 (2019), 267.
  10. Matthias Schmelzer, Andrea Vetter, and Aaron Vansintjan, The Future Is Degrowth (New York: Verso, 2022), 25.
  11. Nicholas Georgescu-Roegen, “Energy and Economic Myths,” Southern Economic Journal 41, no. 3 (1975): 347–81.
  12. David Schwartzman, “The Limits to Entropy,” Science & Society 72, no. 1 (2008): 43–62.
  13. Georgescu-Roegen, “Energy and Economic Myths,” 367.
  14. Kallis, Degrowth, 80.
  15. Schmelzer, Vetter, and Vansintjan, The Future Is Degrowth, 295.
  16. Diego Andreucci and Terrence McDonough, “Capitalism,” in Degrowth: A Vocabulary for a New Era, eds. Giacomo D’Alisa, Federico Demaria, and Giorgos Kallis (New York: Routledge, 2015), 59–62.
  17. Schmelzer, Vetter, and Vansintjan, The Future Is Degrowth, 276.
  18. Cédric Durand, Elena Hofferberth, and Matthias Schmelzer, “Planning beyond Growth,” Political Economy Working Paper 2023/1, January 25, 2023; Parrique and Kallis, “Socialism without Growth”; Löwy et al., “For an Ecosocialist Degrowth”; Schmelzer, Vetter, and Vansintjan, The Future Is Degrowth.
  19. Kallis, Degrowth, 9.
  20. Serge Latouche, Farewell to Growth (Cambridge: Polity, 2009), 37–38; Kallis, Degrowth, 119.
  21. Murray Bookchin, “Social Ecology versus Deep Ecology,” Green Perspectives, no. 4–5 (Summer 1987).
  22. Although the term productive forces is usually reduced to technology and productivity, its content is broader than that. See Güney Işıkara and Özgür Narin, “The Potentials and Limits of Computing Technologies for Socialist Planning,” Science & Society 86, no. 2 (2022): 269–90 for a discussion of productive forces.
  23. Karl Marx, Capital, vol. 3 (London: Penguin, 1981), 959; André Gorz, Farewell to the Working Class (London: Pluto, 1997), 94–104, 97.
  24. Gorz, Farewell to the Working Class, 96.
  25. Işıkara and Narin, “The Potentials and Limits of Computing Technologies for Socialist Planning.”
  26. D’Alisa, Demaria, and Kallis, Degrowth: A Vocabulary for a New Era.
  27. Gorz, Farewell to the Working Class, 30. Similarly, Ivan Illich, Tools for Conviviality (New York: Harper and Row, 1973).
  28. Kallis, Degrowth, 5.
  29. Latouche, Farewell to Growth.
  30. Bengi Akbulut, “Degrowth,” Rethinking Marxism 33, no. 1 (2021), 101; Schmelzer, Vetter, and Vansintjan, The Future Is Degrowth, 203–4.
  31. Steffen Böhm, Ana C. Dinerstein, and André Spicer, “(Im)possibilities of Autonomy,” Social Movement Studies 9, no. 1 (2010): 17–32.
  32. Özgür Narin, “Otonomi Üzerine Değiniler [Some Thoughts on Autonomy]” in Karşı İşgal, eds. Deniz Gürler and Ayşegül Sandıkçıoğlu Gürler (Istanbul: Siyah Beyaz Yayınları, 2016), 227–39.
  33. Işıkara and Narin, “The Potentials and Limits of Computing Technologies for Socialist Planning,” 285.
  34. Planning for Entropy, “Democratic Economic Planning.”
  35. Il destino della pianificazione in URSS non rientra nello scopo di questo articolo. Si tratta di un evento storico mondiale l’abolizione (e non l’elusione) dei rapporti di produzione e di proprietà capitalistici e di un’esperienza senza precedenti di pianificazione della produzione sociale su larga scala. Tuttavia, non è persistito il dinamismo dal basso delle assemblee operaie e contadine, né è stato possibile eliminare l’antagonismo tra lavoro intellettuale e manuale.  La maggior parte delle persone percepisce quindi la pianificazione come un processo tecnocratico “e come un modo distante di gestire le risorse e di alienare la vita delle persone”. Durand, Hofferberth, and Schmelzer, “Planning beyond Growth.

Fonte: https://monthlyreview.org/2023/07/01/degrowth-and-socialism-notes-on-some-critical-junctures/?nowprocket=1

Dichiarazione: le opinioni espresse nell’ articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di altri membri della redazione di RedonGreen.

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