di Jacopo Gimigliano – Controtempi


Dopo gli interventi dei giorni scorsi sulla crisi sanitaria e sul rapporto tra la pandemia di Covid-19 e la crisi ecologica, continuiamo il percorso di indagine con questo articolo sulla scuola. In che modo la quarantena si abbatte sulla già precaria situazione scolastica? Quali contraddizioni porta alla luce?

Il primo passo per elaborare un discorso serio e ponderato sulla scuola, è capire che tipo di scuola si ha in mente. Si può infatti tranquillamente affermare che per moltissimi anni l’istruzione sia stata appannaggio di una ristretta élite, e che la sua funzione fondamentale fosse quella di formare una classe dirigente forte, consapevole di sé, in grado di padroneggiare gli strumenti intellettuali necessari a mantenere la propria egemonia sulle classi inferiori. È questo il modello di scuola che si vuole qui prendere in considerazione? Certamente no. Quella del diritto allo studio, di un’istruzione alla portata di tutti, è una conquista relativamente recente ma vitale e imprescindibile: una società in cui i giovani di ogni estrazione sociale hanno diritto ad un lungo periodo durante il quale studiano anziché dover lavorare sin dalla tenera età è senza dubbio una società migliore di una in cui tale diritto è negato. Non è tuttavia scopo di quest’articolo decantare le virtù e l’importanza di una scuola pubblica e aperta a tutti: esso è piuttosto il punto di partenza, il già accennato primo passo dal quale prendere le mosse.

In effetti, a ben vedere, sebbene l’apertura della scuola a tutte le classi sociali rappresenti un grandissimo traguardo, è innegabile il fatto che abbia anche avuto un insidioso effetto collaterale: mentre prima, quando ad andare a scuola erano solo i figli dei padroni, il valore della stessa non veniva messo in discussione, in quanto serviva a mantenere le classi inferiori sotto il giogo di quelle superiori, ora che l’istruzione è accessibile a tutti si nota una pericolosa e preoccupante tendenza a chiedersi: «Ma in fondo a cosa serve insegnare il latino, il greco, la filosofia, la scienza etc. ai figli dei proletari?».

Questa domanda si traduce in riforme che pongono sempre più l’accento sul carattere meramente utilitaristico del mondo dell’istruzione, e di conseguenza in una sempre maggiore marginalizzazione – sia nei programmi, sia nei finanziamenti – delle discipline umanistiche, percepite come le più estranee e impermeabili ad una concezione utilitaristica del sapere.

scuola otium

Essa è inoltre una domanda che rivela un’incapacità da parte del capitale di pensare all’istruzione come attività di puro otium e in quanto tale svincolata dalle logiche di produzione e profitto, come attività che ha valore in sé. In sostanza, un’incapacità di comprendere il valore più intimo della scuola, il suo senso originario.

La scuola nasce infatti come qualcosa di dicotomicamente contrapposto a tutto ciò che è legato al profitto, alle occupazioni necessarie al sostentamento di sé e della propria comunità – in breve, al negotium. Ciò che i latini intendevano per “scuola”, cioè l’otium, era uno studio disinteressato a tutto il resto, finalizzato unicamente alla cura del proprio animo; era l’attività più alta a cui un cittadino romano potesse dedicarsi, tanto da spingere Seneca ad affermare che gli otiosi «sono coloro che si dedicano alla saggezza, sono gli unici a vivere veramente».

Tutto ciò oggi non è ovviamente possibile, in quanto giovani che studiano senza un’apparente utilità pratica sono giovani sottratti a quei meccanismi di sfruttamento tanto cari alla società capitalista in cui viviamo, ed è invece opportuno che gli anni che si sono passati a scuola siano poi più spendibili sul mercato del lavoro. Altrimenti sono una perdita di tempo, un lusso che pochi si possono permettere.

Non deve perciò sorprendere la necessità da parte del capitale di ridurre l’istruzione sotto il proprio giogo, il tentativo di ridurre la stessa ad una merce come altre, e, di conseguenza, di trasformare gli studenti in consumatori e gli insegnanti in meri burocrati; e l’impegno e la fantasia profusi nell’instillare in ragazzi e ragazze tale concezione utilitaristica dello studio sin dalla tenera età sono in qualche modo ammirevoli: basti citare le più che discutibili domande contenute nel test Invalsi di qualche anno fa destinato ai bimbi di quinta elementare, in cui: «Raggiungerò il titolo di studio che voglio?» veniva messo in correlazione con: «Avrò sempre abbastanza soldi per vivere?», «Riuscirò a comprare le cose che voglio?», ecc.

Addirittura, con la vergognosa riforma della “Buona Scuola” del 2015, ci si è spinti oltre: si è arrivati, tramite l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, ad inserire ragazzi e ragazze ancora minorenni nel mondo lavorativo, perché sia mai che non inizino ad essere produttivi già dai primi vagiti emessi nella culla. Sostanzialmente, con tale legge si è negata l’effettiva importanza della scuola (perché ciò che emerge dalla riforma è un messaggio rozzo e grossolano traducibile in: «Ma cosa studi a fare, le vere esperienze sono quelle che si fanno sul lavoro!»).

scuola scioper alternanza scuola lavoro

Insomma, è da molto tempo in atto un processo che vede il mondo della scuola piegarsi progressivamente alle logiche del capitale. Se però, grazie alla resistenza da sempre opposta da insegnanti e cittadini sensibili alla causa, si può affermare che il mondo dell’istruzione avesse fino ad ora mantenuto un certo grado di autonomia rispetto a determinate logiche e che tale processo venisse portato avanti con lentezza e difficoltà, l’attuale situazione emergenziale dettata dalla pandemia di COVID-19 rischia di accelerarne i tempi e abbattere ogni opposizione, in nome della necessità di contenere il virus.

In che modo ciò avverrebbe? Naturalmente, non si stanno qui criticando gli strumenti attivati per garantire la didattica anche in tempi di emergenza, che sono al contrario utili e apprezzabili, quanto l’eccessivo entusiasmo con cui tali strumenti sono stati accolti, non ultimo dal Miur. Tale entusiasmo fa infatti sorgere il timore che determinati dispositivi messi in atto non vengano poi abbandonati una volta finita la crisi.

E questo è pericoloso, perché se la didattica a distanza e la digitalizzazione della scuola sono misure al momento inevitabili, estendere il loro utilizzo anche a momenti non di crisi significherebbe svilire ciò che la scuola rappresenta.

Come? In primis, se tali strumenti venissero davvero mantenuti, verrebbe a mancare in modo definitivo quella relazione tra studente e insegnante che costituisce il fulcro di ciò che si intende con il termine “istruzione”. Sopprimendo quella cosa sociale viva che si instaura tra studente e studente, studente e docente, si ridurrebbe il mondo dell’istruzione al suo carattere prettamente nozionistico, legato alle competenze specifiche da acquisire per poter accedere al mercato del lavoro.

Ne uscirebbe così una scuola dimidiata, spogliata del suo valore più profondo. Ciò che invece uscirebbe rafforzata sarebbe una concezione utilitaristica della scuola.

Ma l’uccisione di ogni carattere sociale del mondo dell’istruzione non è l’unica eredità che questa crisi potrebbe lasciare: un ulteriore e non meno nocivo effetto collaterale che la didattica a distanza rischia di comportare è l’abbandono a sé stessi di molti studenti italiani.

Come ha infatti ammesso lo stesso ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, il 19% degli studenti non può accedere alla didattica online; un dato che si aggiunge a quello dell’Istat, secondo cui un terzo delle famiglie italiane non ha un PC o un Tablet in casa, dato che nel Sud cresce a quattro famiglie su dieci.

scuola saperi

In poche parole, ciò significa che in Italia ci sono milioni di ragazzi e ragazze a cui è attualmente negato il diritto all’istruzione. Un fatto gravissimo e vergognoso, che costituisce l’ennesima discriminazione nei confronti dei più svantaggiati. Come si può conciliare un’idea di scuola in teoria aperta e accessibile a tutti, senza distinzioni, con un sistema che in pratica prevede l’esclusione di chi non ha la possibilità economica di acquistare un computer?

È senza dubbio positivo il fatto che il ministro Azzolina abbia promesso in tal senso provvedimenti a sostegno delle famiglie meno abbienti, ma di promesse se ne possono fare tante, e tante ne sono state fatte: nel frattempo, quel milione e seicentomila studenti non ancora raggiunti dalla didattica online è ancora lì…

La discriminazione non avviene però solo nei confronti delle famiglie appartenenti alle fasce economiche più basse: coinvolge anche gli studenti con disabilità intellettive, che, come denuncia Coordown (coordinamento nazionale delle associazioni di persone con sindrome di Down) in una lettera indirizzata al ministro dell’Istruzione, in questa situazione emergenziale sono ancora più abbandonati di quanto accade normalmente.

Come si può pretendere che studenti il cui percorso è già in salita rispetto agli altri ed è costellato da molti più ostacoli (solo in parte costituiti dalla propria disabilità) si destreggino tra la già di per sé farraginosa didattica a distanza e un sostanziale homeschooling, per loro difficilmente praticabile? Di nuovo, ad una fetta di studenti viene di fatto negato quel diritto all’istruzione che dovrebbe essere garantito a tutti, senza discriminazioni.

Quella di fronte alla quale attualmente ci si trova è dunque una scuola caratterizzata da una profonda ingiustizia sociale, una scuola che si dimentica dei più svantaggiati; una scuola che consiste in un mero “smart-studying”, e quindi privata del suo più intimo valore educativo.

Sarebbe tuttavia miope attribuire tutte queste storture all’emergenza sanitaria che stiamo affrontando: essa non ne è infatti la causa, al contrario ha contribuito a portarle alla luce, esacerbandole. Le responsabilità della deriva elitaria e utilitaristica verso cui la nostra scuola si sta avviando vanno perciò cercate altrove, e precisamente in quel già citato processo iniziato da molti anni che vede un’accelerazione dei processi di sussunzione dell’istruzione agli interessi del capitale.

Dunque, non è con il superamento della crisi che si fermerà questa vera e propria decadenza del nostro sistema scolastico. La speranza è che l’emergere di queste contraddizioni spinga a ripensare al ruolo che l’istruzione ha nella nostra società e a restituirgli la dignità che merita: non lasciamo che, una volta passata l’emergenza, torni tutto come prima, non dimentichiamo le storture contro cui la pandemia ha puntato il dito.

Per una volta, non fissiamo il dito, concentriamoci sulla luna.

Qui la quarta parte, su democrazia e controllo.

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