di Umberto Oreste

Gli anni 2000

Nel 2000 il premio Nobel Paul Crutzen formulò l’ipotesi che ci troviamo in un’era geologica diversa dall’Olocene, come comunemente creduto. Battezzò la nuova era Antropocene, cioè un’era nella quale l’attività umana aveva prodotto mutamenti nella struttura geologica del pianeta. La questione fu portata a livello del Comitato Internazionale di Geologia che istituì l‘Antropocene Working group per verificare se erano rispettati i parametri stratigrafici che giustificassero l’introduzione della nuova era geologica. Il gruppo discusse l’argomento a Città del Capo nel 2016 ed emise un rapporto nel 2019, nel quale si riportava l’approvazione a maggioranza  (29 a favore e 4 contrari) riguardo alla revisione della periodizzazione del Cenozoico con l’introduzione dopo l’Olocene dell’Antropocene. Era quindi maturo il lancio del progetto ecosocialista nella sua prospettiva anticapitalista.

Infatti, nel 2000 Joel Kovel, psichiatra marxista e Michael Lowy, un antropologo troskista lanciarono il Manifesto ecosocialista. Il Manifesto denuncia il caos dell’ordine mondiale, nel quale la crisi sociale e quella ecologica sono intrecciate e rappresentano un’unica dinamica: l’espansione del sistema capitalista mondiale. Il capitale ha ridotto la maggioranza della popolazione planetaria a sola riserva di manodopera ed il resto allo stato di cose; ha minato le comunità con il consumismo e la depoliticizzazione; ha aumentato la disparità di reddito e la repressione del dissenso; ha minato l’autonomia delle periferie con un enorme apparato militare. “Crediamo che l’attuale sistema capitalista non possa regolare, per non parlare di superare, le crisi che ha creato. Non può risolvere la crisi ecologica perché dovrebbe porre dei limiti all’accumulazione, scelta inaccettabile per un sistema fondato sulla regola del crescere o morire”; ancora “Il sistema capitalista mondiale è storicamente fallito; è diventato un impero il cui straordinario gigantismo nasconde sempre meno la sottostante debolezza. Deve essere sostituito se vogliamo un futuro migliore”.

Ma perché invocare il socialismo? Perché il socialismo è il termine che designa la rottura rivoluzionaria e l’unica alternativa per risolvere le crisi che il capitale ha creato. Come la barbarie attuale, con le crisi ecologica e della globalizzazione è diversa da quella preconizzata da Rosa Luxembourg, così anche l’alternativa alla barbarie non è il socialismo come inteso nel secolo scorso ma un socialismo adeguato ai tempi correnti; un socialismo che chiamiamo ecosocialismo. L’ecosocialismo conserva gli obiettivi emancipatori del socialismo prima versione e rifiuta gli obiettivi riformisti della socialdemocrazia e le strutture produttiviste del socialismo burocratico. Dal punto di vista della produzione dei beni si traduce nella priorità dei valori d’uso rispetto ai valori di scambio. Il Manifesto termina con la frase: “L’ecosocialismo sarà internazionale o non sarà. Le crisi del nostro tempo possono e devono essere intese come opportunità rivoluzionarie che dobbiamo coltivare”.

Nel 2003 la prima organizzazione politica globale che assunse la prospettiva ecosocialista fu la quarta internazionale nel suo XV congresso. Nel febbraio 2003, in Belgio, più di duecento delegati, provenienti da 37 paesi hanno approvato la risoluzione “Ecologia e Socialismo” : L’umanità ha affrontato problemi ecologici in altri momenti, ma questi hanno assunto oggi una nuova urgenza a causa della loro portata e gravità. I danni all’ambiente hanno spesso un impatto irreversibile sull’umanità e sulla natura e la crisi ecologica all’orizzonte all’alba del 21° secolo sta mettendo in pericolo la vita di milioni di persone.Contrariamente alle correnti prevalenti nel movimento dei lavoratori, che hanno teso a ignorare o minimizzare le questioni ambientali, ai movimenti ecologisti e ai partiti verdi può essere attribuito il merito di aver posto queste questioni decisive all’ordine del giorno. Tuttavia, le soluzioni che propongono sono spesso in definitiva false, poiché trascurano il legame intrinseco tra la distruzione ambientale e la logica del profitto del capitalismo. Per affrontare seriamente i pericoli ecologici, dobbiamo uscire dal quadro creato dalla logica del profitto, nella prospettiva di una società socialista pianificata democraticamente.

Il People’s Climate Summit è stata una conferenza sul clima aperta e alternativa che si è svolta durante la COP15 dell’UNFCCC dal 7 al 18 dicembre 2009 a Copenaghen. Circa 50.000 persone da tutto il mondo hanno partecipato all’evento System Change not Climate Change, con oltre 300 dibattiti, mostre, film, concerti e spettacoli teatrali. Klimaforum09 è stato organizzato dalla rete Klimaforum, un’ampia rete di organizzazioni della società civile, e realizzato con l’aiuto di centinaia di volontari.Alla manifestazione con 100.000 partecipanti, si sono lanciate le richieste di trovare soluzioni concrete alla crisi ecologica, in un’ottica di delega e non di prospettiva di azione rivoluzionaria.“Noi, i popoli, le comunità e tutte le organizzazioni partecipanti al Klimaforum09 di Copenaghen, facciamo appello a ogni persona, organizzazione, governo e istituzione, comprese le Nazioni Unite (ONU), per contribuire a questa necessaria transizione. Sarà un compito impegnativo. La crisi di oggi ha aspetti economici, sociali, ambientali, geopolitici e ideologici che interagiscono e si rafforzano a vicenda così come la crisi climatica. Per questo motivo, chiediamo un’azione urgente per il clima: Un completo abbandono dei combustibili fossili entro i prossimi 30 anni, che deve prevedere traguardi specifici per ogni quinquennio. Chiediamo un taglio immediato dei GHG dei paesi industrializzati di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. Riconoscimento, pagamento e compensazione del debito climatico per il consumo eccessivo di spazio atmosferico e gli effetti negativi dei cambiamenti climatici su tutti i gruppi e le persone colpite. Un rifiuto di soluzioni false e pericolose puramente orientate al mercato e incentrate sulla tecnologia come l’energia nucleare, gli agro-carburanti, la cattura e lo stoccaggio del carbonio, la geoingegneria. Soluzioni reali alla crisi climatica basate sull’uso sicuro, pulito, rinnovabile e sostenibile delle risorse naturali, nonché sulle transizioni verso la sovranità alimentare, energetica, della terra e dell’acqua.

 Nello stesso 2009 a Belem, in Brasile c’è stato il IX Socialforum mondiale, in quella sede è stata formulata la Dichiarazione ecosocialista di Belém, sottoscritta da firmatari di 36 paesi. La dichiarazione non è una petizione ai governi, ma una enunciazione di un progetto alternativo da attuare sotto controllo popolare del quale si delineano i termini con una limitazione della libertà individuale ed un ampliamento della libertà e responsabilità collettiva. L’anno successivo (2010) si tenne Conferenza popolare sui cambiamenti climatici e i diritti della Madre Terra, a Cochabamba in Bolivia. E’ questo il momento in cui prendono la parola i popoli del Sud che mettono sotto accusa le conseguenze del modello di vita del Nord sulle loro vite. E’ questo il momento dell’incontro dell’ecosocialismo con l’indigenismo in America latina ma non solo. Non sono più solo individui che si incontrano e si mobilitano, affratellati da una critica al capitalismo, sono comunità che prendono coscienza in quanto comunità. E questo si verifica in Amazzonia, in Perù, in Colombia. In questo contesto ritroviamo rivoluzionari ecosocialisti come Hugo Blanco in Perù e Sonia Guajajara in Brasile. La prospettiva ecosocialista non si limita così al settore dei salariati, ma assume una dimensione globale.

L’ecofemminismo sostiene l’esistenza di un parallelo tra la subordinazione delle donne e il degrado della natura, sulla base della teoria che esistano gerarchie ideologiche che permettono una giustificazione sistematica da parte della società, del dominio perpetrato da soggetti classificati in categorie di rango superiore, sui soggetti classificati in categorie di rango inferiore.

L’ecofemminismo si propone di indagare le intersezioni tra sessismo, il dominio sulla natura, il razzismo, lo specismo, come le altre caratteristiche di disuguaglianza sociale. Alcune ecofemministe hanno sostenuto che il sistema capitalista e patriarcale esprima una dominazione tripla del cosiddetto terzo mondo delle donne, e della natura: proprio questo dominio, unito allo sfruttamento delle donne, dei popoli con scarse risorse e della natura, si trova al centro delle analisi dell’ecofemminismo.

Per la femminista indiana Vandana Shiva uno dei compiti dell’ecofemminismo è quello di ridefinire le società, a suo parere dominanti, nelle quali la produttività e l’attività delle donne e della natura vengono ritenute passive, se non hanno un’utilizzazione industriale. Tra le ecofemministe ricordiamo anche la filosofa e storica della scienza Charolyn Merchant, l’antropologa Terisa Turner del Tribunale Internazionale sui Diritti della Natura, che ha definito il reato di Ecocidio, e la sociologa Ariel Salleh che enfatizza l’economia politica del lavoro riproduttivo o rigenerativo nel sistema mondiale.

Gli anni ‘10

Una propria visione ecosocialista la sviluppa John Bellamy Foster, sociologo americano, redattore della storica rivista marxista americana Monthly Review, che ha studiato la correlazione tra le fasi più recenti dell’accumulazione capitalistica e la crisi ecologica, sottolineando la necessità di una prospettiva anticapitalista. La sua reinterpretazione di Marx sull’ecologia ha introdotto il concetto di “metabolic rift” ed è stata ampiamente influente. Nel suo recente libro The Return of Nature: Socialism and Ecology (2020), Foster, partendo dagli anni della morte di Darwin (1882) e di Marx (1883) e arrivando agli anni ’70 del secolo scorso, esplora come sociologhi e scienziati materialisti di vario genere, da Friedrich Engels a Joseph Needham a Rachel Carson e Stephen Jay Gould, hanno cercato di sviluppare un naturalismo dialettico, radicato in una critica del capitalismo.

La strategia sostenuta dagli stati è quella della transizione ecologica, cioè passare dalle fonti di energia fossile alle fonti di energia alternative, nel quadro di un “capitalismo verde”. Tale impostazione è stata contestata radicalmente dall’ecologista belga Daniel Tanuro nel libro L’impossibile capitalismo verde (2011) che critica sia le teorie della decrescita sia alcune ambiguità produttiviste del marxismo; non cade nel doppio tranello del catastrofico “non c’è niente da fare” da una parte e del “il problema è ben altro” dalla parte opposta.

Tanuro non cede mai alla palingenesi della catastrofe, ovvero del “tanto peggio, tanto meglio”, quasi che il cambiamento fosse conseguenza automatica del peggioramento verticale delle condizioni di vita delle persone. Egli rifiuta la cosiddetta coscienza antropica cioè l’idea che il riscaldamento globale sia dovuta all’attività umana, quasi una conseguenza deterministica della presenza della specie umana sul pianeta. A differenza delle precedenti, questa crisi ecologica è dovuta alla tendenza alla sovrapproduzione e al sovraconsumo. A questo punto data la ristrettezza dei tempi i meccanismi di prezzo, concorrenza e mercato connaturati al modello capitalistico non sono assolutamente in grado di guidare la transizione energetica necessaria.  Negli ultimi anni le COP si sono succedute con la monotona ripetizione delle buone intenzioni che rimangono puntualmente sulla carta. Particolare risalto hanno avuto gli Accordi di Parigi del 2015, che riguardano essenzialmente la riduzione delle emissioni dal 2020. Il contenuto dell’ accordo è stato negoziato da 196 stati alla COP21 e prevede azioni atte a contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 °C  rispetto ai livelli preindustriali. Nella maggior parte dei paesi il trattato è stato ratificato ma non è ancora entrato in vigore; ci sono anche paesi che non hanno firmato il trattato (tra gli altri i maggiori produttori di petrolio (Iran, Iraq, Libia). Nel 2016 Jason Moore pubblicò il libro Antropocene o Capitalocene? Natura, Storia e Crisi del Capitalismo. Nel libro si sostiene il concetto di ecologia-mondo, commissione di dinamiche sociali e elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nella sua tendenza a globalizzarsi. Il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è esso stesso un regime ecologico; con l’attuale Capitalocene il capitale è diventato un modo di organizzazione della natura.

La discussione su Marx ecologo o produttivista si è sviluppata recentemente con diverse posizioni da parte di diversi autori. Ne da una esauriente esposizione Michael Lowy nel capitolo Marx, Engels e l’ecologia del suo libro Ecosocialismo (2020) dove riprende l’analisi di Kohei Saito (Karl Marx’s Ecosocialism, Capitalism, Nature, 2017), che vede gli scritti di Marx ed Engels non come un unico blocco uniforme e definitivo ma come un pensiero in movimento, indirizzato anche dagli sviluppi dell’agrochimica di von Liebig.

Il carattere internazionale della protesta ecologica e la logica diffidenza rispetto al bla, bla, bla dei governi si è manifestata con la figura di Greta Thunberg che è stata capace di catalizzare l’interesse delle nuove generazioni.  

 

Sarebbe estremamente utile integrare questo lineamento storico con la narrazione, o almeno con l’elencazione, delle numerose lotte su questioni ambientali sparse per il pianeta, succedutesi con frequenza crescente. Ci sarebbe da allacciare lotte sullo stesso tema sviluppatesi in regioni tra di loro lontanissime come quelle sull’acqua, sulla terra, sulla deforestazione, spesso lotte che vedono diverse comunità contro lo stesso nemico delle multinazionali; lotte in diverse nazioni contro lo stesso progetto ecocida di pipeline; lotte su tematiche contemporaneamente di lavoro e di ambiente o di ambiente e di genere. Incontreremmo vittorie, vittorie parziali e sconfitte, ma sempre interessantissime per l’avanzamento della prospettiva ecosocialista. È una storia che narrerebbe la lotta dei Sioux a Standing Rock contro il Dakota Access Pipeline, la lotta vinta dal popolo peruviano nella regione di Arequipa contro nuove concessioni minerarie, la lotta contro un nuovo aeroporto a Notre Dame des Landes e tantissime altre. Non può avanzare l’idea di prospettiva ecosocialista se queste lotte non si generalizzano e forniscono materia di riflessione per far avanzare una strategia globale. Oramai il negazionismo sui cambiamenti climatici è stato sconfitto, le evidenze sono sempre più frequenti e tangibili. La denuncia della drammaticità delle prospettive future è diventato senso comune. Deve essere maturo il compito di far diventare senso comune le responsabilità del capitalismo e la necessità del suo superamento. E’ questo il compito che ci dobbiamo assumere.

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