di Daniel Tanuro

Durante la COP26 a Glasgow, un’informazione scioccante è stata data ai delegati dal direttore dell’Istituto di Potsdam (PIK), Johan Rockström: mantenere il riscaldamento al di sotto di 1,5°C e nel rispetto della giustizia climatica, l’1% più ricco della popolazione mondiale dovrà dividere le sue emissioni per trenta entro il 2030; il 50% più povero, invece, potrà moltiplicarle per tre.

Per misurare l’impatto di queste cifre, bisogna considerare che queste sono state date alle delegazioni ufficiali da un eminente scienziato che ha riassunto le dieci più recenti scoperte della scienza del cambiamento climatico. L’ufficio stampa di PIK [Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico. N.d.T.] mi ha comunicato quale fonte aveva usato l’autore, così sono andato direttamente all’articolo di riferimento per saperne di più. Si tratta di uno studio commissionato da Oxfam e condotto da Tim Gore, un ex responsabile della ONG, recentemente diventato capo del dipartimento Low Carbon and Circular Economy dell’Istituto europeo per la politica ambientale. Il suo contenuto merita sia un’ampia diffusione che un esame critico.

Il tema dell’ingiustizia climatica viene solitamente affrontato paese per paese, secondo le responsabilità storiche del Nord e del Sud globale: il primo è ricco e responsabile, il secondo è povero e vittima. Tuttavia, gli americani o gli europei poveri non sono ricchi e i cinesi o gli indiani ricchi non sono poveri… Lo studio Oxfam cerca di integrare questa realtà di classe. Questa è la sua principale risorsa. Ma cominciamo a presentare la metodologia utilizzata.

Metodologia

L’autore confronta le emissioni di CO2 nella sfera del consumo. Le emissioni sono quindi allocate al paese in cui i beni e i servizi sono consumati e non ai paesi in cui sono prodotti. Sono espressi in tonnellate di CO2 per persona all’anno, ottenuti dividendo le emissioni del paese in questione per la popolazione. Il risultato include tutte le fonti di emissioni: famiglie, aziende, servizi pubblici, ma viene corretto secondo i risultati delle indagini nazionali sulle condizioni di vita delle famiglie (applicando un ‘coefficiente di carbonio’ ai beni e servizi consumati).

È questa correzione che permette di comprendere la disuguaglianza climatica non solo in termini Nord-Sud, ma anche in termini di poveri e ricchi all’interno dei paesi, siano essi poveri o ricchi. Il testo sottolinea la crescente importanza di questo approccio: “Anche se la disuguaglianza del carbonio è spesso maggiore a livello globale, le disuguaglianze all’interno dei paesi sono anch’esse molto significative. Condizionano sempre più l’aggravarsi della disuguaglianza globale e probabilmente hanno un impatto maggiore sull’accettabilità politica e sociale degli sforzi nazionali di riduzione delle emissioni” [corsivo dell’autore]. Questo punto, che è ovviamente di importanza strategica nella lotta contro il cambiamento climatico, sarà ripreso più avanti.

La politica climatica aumenta la disuguaglianza

Abbiamo una stima delle quote di emissioni attuali attribuibili al consumo di diversi gruppi di popolazione: l’1% più ricco, il 10% più ricco, il 40% appartenente al reddito “medio” e il 50% più povero. Sulla base dei “Nationally Determined Contributions” [NDCs, ovvero i ‘piani climatici’ nazionali] degli Stati e dei nuovi impegni che sono stati comunicati poco prima della COP26, possiamo stimare il probabile volume di emissioni nel 2030, e quindi anche la deviazione di questo volume dalla traiettoria di riduzione da seguire per raggiungere le “zero emissioni nette” nel 2050.

Possiamo anche stimare la probabile evoluzione delle quote di emissioni di ogni gruppo di reddito, metterle in relazione con il numero di persone in ogni gruppo, e quindi ottenere i volumi medi di emissioni per persona e per gruppo, a livello globale e nazionale. Infine, tali volumi possono essere confrontati con il volume medio di emissioni individuali che è globalmente compatibile con l’obiettivo massimo di 1,5°C: 2,3 tonnellate di CO2/persona/anno [per una popolazione di 7,9 miliardi nel 2030]. In questo modo, siamo in grado di fare di più che visualizzare l’attuale ingiustizia climatica; possiamo vedere in che direzione la politica attuale la cambierà entro il 2030, a livello globale e per gruppo.

I risultati possono essere riassunti in una tabella:

Per non interpretare erroneamente queste cifre, bisogna sottolineare che qui non stiamo valutando la disuguaglianza sociale, ma quella del carbonio. Così, il calo previsto nel 2030 della quota di emissioni globali attribuibili al 10% non è dovuto ovviamente al fatto che i ricchi saranno meno ricchi tra dieci anni. Piuttosto, riflette il fatto che i membri appartenenti al gruppo del 10% globale vivono principalmente in paesi capitalisti sviluppati dove l’intensità di carbonio diminuirà più rapidamente che nel resto del mondo, e che hanno, più di altri, le risorse per adottare tecnologie verdi. Torneremo in seguito su come interpretare il fatto che la quota di emissioni dell’1% più ricco continua a crescere. Per ora, concentriamoci sui molto ricchi e i poveri.

Lo studio conferma ciò che Oxfam dice da anni: l’1% più ricco della popolazione mondiale emette quasi il doppio di CO2 rispetto al 50% più povero. Ma mostra anche che le politiche climatiche decise dai governi dopo la COP21 (2015, Parigi) approfondiscono questa ingiustizia: infatti, la quota di emissioni globali attribuibili al consumo dell’1% più ricco, passata dal 13% nel 1990 al 15% nel 2015, continuerà a salire fino al 16% nel 2030. Sarà allora del 25% più alto che nel 1990, e 16 volte più alto della media globale. Nel 2030, ogni persona del gruppo globale ricco emetterà più di 30 volte le 2,3 tonnellate di CO2 per persona all’anno che sono compatibili con il limite di 1,5°C. Il 50% più povero, invece, vedrà pochi cambiamenti: la loro quota di emissioni globali passerà dall’8% al 9% all’anno e le loro emissioni pro capite rimarranno ben al di sotto delle 2,3 tonnellate di CO2/persona/anno.

La riduzione delle emissioni è inversamente proporzionale al reddito

Il quadro del peggioramento dell’ingiustizia climatica globale dalla COP21 diventa più chiaro quando confrontiamo le tendenze 2015-2030 delle emissioni pro capite per ogni gruppo (come riflesso nelle politiche attuali), con le tendenze che queste emissioni per gruppo dovrebbero seguire per rimanere al di sotto del riscaldamento di 1,5°C nella giustizia climatica:

Complessivamente, le emissioni pro capite nel 2030 saranno più basse del 7% rispetto al 2015 (se gli Stati rispetteranno i loro impegni!) Sappiamo che questa riduzione è molto più bassa della riduzione media pro capite necessaria per restare sotto 1,5°C: 52%.

L’elemento nuovo che emerge qui è che, oltre a peggiorare la disuguaglianza globale, lo sforzo incorporato nelle politiche climatiche dei governi è inversamente proporzionale al reddito: di quello che la giustizia climatica dovrebbe imporre l’1% più ricco farà un ventesimo (97/5), il 10% più ricco un ottavo (90/11), e il 40% a reddito medio un sesto (57/9). Ci sono quindi sia delle ineguaglianze tra queste tre classi (il 40% “medio” dei percettori di reddito si avvicina di più all’obiettivo) sia un’ineguaglianza ancora più grande in quanto la metà della popolazione mondiale utilizzerà solo un tredicesimo del budget di carbonio nel 2030 a cui avrebbe diritto se fosse rispettato il principio delle “responsabilità e capacità differenziate” (233/17).

Merita di essere esaminata l’evoluzione delle quote di emissioni attribuibili al 10% più ricco (tra 55.000 e 172.000 dollari/anno) e al 40% il cui reddito è detto “medio” (tra 9.800 e 55.000 dollari/anno). Queste due categorie rappresentano quote sostanziali, persino maggioritarie, dei lavoratori dipendenti rispettivamente nei paesi capitalisti sviluppati e in quelli emergenti.

Lo studio include un grafico illuminante che confronta tre traiettorie di cambiamento delle emissioni pro capite per reddito – dal più povero dei poveri al più ricco dei ricchi: la traiettoria 1990-2015, la traiettoria 2015-2030 e la traiettoria 2015-2030 coerente con il massimo di 1,5°C nella giustizia climatica.

La doppia conclusione dello studio è sorprendente:

1°) “le classi medie globali (il 40%) che hanno visto i loro tassi di emissione crescere più rapidamente durante il 1990-2015 sperimenteranno la più grande inversione durante il 2015-2030”;

2°) “le più profonde riduzioni (di emissioni, di TD) verranno dai cittadini a più basso reddito nei paesi ricchi”.

Promesse di una “giusta transizione”: fumo e specchi

Porre l’ingiustizia climatica in termini di gruppi di reddito cattura una realtà che sfugge all’analisi quando la questione è analizzata semplicemente in termini di paesi ricchi e poveri. In particolare, evidenzia la crescente responsabilità dei ricchi, e specialmente dei molto ricchi, non solo nel Nord, ma anche nel Sud globale. Come dice lo studio, “è notevole che in tutti i principali paesi emettitori, le proiezioni 2030 del 10% più ricco e dell’1% più ricco a livello nazionale mostrano impronte di consumo individuali sostanzialmente al di sopra del livello globale di 1,5°C pro capite” [corsivo dell’autore].

Diamo un’occhiata più da vicino:

  • L’India è l’unico grande paese emittente in cui le emissioni medie pro capite nel 2030 rimarranno al di sotto delle 2,3 tonnellate di CO2/persona/anno corrispondenti al massimo di 1,5°C. È anche l’unico paese in cui le emissioni del 50% più povero rimarranno ben al di sotto di questo livello. Ma le emissioni del 10% più ricco degli indiani supereranno questo livello cinque volte, e quelle dell’1% più ricco più di venti volte.
  • Il 50% più povero degli americani supererà solo di poco la soglia di 2,3tCO2/persona/anno, ma l’1% più ricco emetterà in media cinquantacinque volte di più (127 tonnellate) e il 10% più ricco quindici volte di più (circa 35 tonnellate).
  • In Cina, le emissioni del 50% più povero rimarranno al di sotto della soglia fatidica nel 2030, ma quelle del 10% più ricco saranno più di dieci volte superiori e quelle dell’1% più ricco più di trenta volte (82 tonnellate).
  • Anche le proiezioni per l’Unione Europea e la Gran Bretagna sono molto istruttive: nel 2030, le emissioni del 50% più povero saranno vicine al volume medio globale compatibile con 1,5°C… ma quelle del 10% più ricco saranno da cinque a sei volte superiori, e quelle dell’1% più ricco più di quindici volte.

Questi dati rendono abbondantemente chiaro che gli impegni di “giusta transizione” inclusi nelle risoluzioni ufficiali della COP non sono altro che una facciata. Bla, bla, bla. In realtà, c’è un doppio movimento: 1°) l’ingiustizia climatica si sta approfondendo e 2°) la classe dei super-ricchi/super-inquinatori si sta ricomponendo con l’ascesa del Capitale in Asia. All’interno di questo gruppo, non è esagerato parlare di un cambiamento. Nel 2015, l’1% più ricco del pianeta ha emesso il 15% della CO2 globale. I ricchi cinesi hanno contribuito per il 14%, i ricchi americani per il 37%, gli europei per l’11% e gli indiani per il 5%. Secondo le proiezioni dello studio, entro il 2030, l’1% più ricco avrà aumentato la sua quota di CO2 globale di un ulteriore 16%. Ma i ricchi cinesi contribuiranno al 23%, i ricchi americani al 19%, i ricchi europei al 4% e i ricchi indiani all’11%. Riassunto nella tabella qui sotto:

Quota di CO2 globale emessa dall’1% più ricco nel 2015 Quota di CO2 globale emessa dall’1% più ricco nel 2030

L’autore dello studio non lo nota, ma colpisce anche il fatto che, all’altra estremità della piramide del reddito, vi sia una convergenza abbastanza chiara delle impronte di carbonio: il 50% dei poveri negli Stati Uniti, nell’UE, in Gran Bretagna e in Cina emetterà una quantità relativamente simile di CO2 pro capite nel 2030, leggermente superiore o leggermente inferiore alle 2,3t/pers/anno.

Un quadro incompleto

Nonostante il suo grande interesse, lo studio Oxfam non dà un quadro completo delle responsabilità climatiche dei diversi gruppi di reddito. È più che probabile che sottostimi le emissioni attribuibili ai più ricchi, ma anche che sovrastimi le emissioni attribuibili al 40% medio della popolazione, e anche quelle della frangia del 10% più ricco.
Ci sono due difficoltà.
In primo luogo, le emissioni attribuibili all’1% più ricco sono tanto difficili da rintracciare quanto i loro beni, e per la stessa ragione: segreto bancario, evasione fiscale e assenza di un registro dei beni. L’autore nota: “Mentre ci sono metodi consolidati per stimare le impronte individuali applicando coefficienti di carbonio a beni e servizi identificati nei censimenti della popolazione, è ampiamente riconosciuto che questi metodi sottorappresentano il consumo dei cittadini più ricchi. Per superare questo problema, lo studio si basa sul lavoro di ricercatori che hanno evidenziato diverse realtà.

Per esempio lo studio ha rilevato che:

  • I dati disponibili su auto, case, aerei e yacht indicano che le emissioni del consumo dei miliardari raggiungono facilmente diverse migliaia di tonnellate di CO2/pers/anno. I superyacht, le cui vendite stanno esplodendo nel contesto della pandemia, sono le principali fonti di queste emissioni (un superyacht emette circa 7000 tonnellate di CO2/anno);
  • il trasporto è la più grande fonte di emissioni per le persone più ricche. Il trasporto aereo in particolare: secondo alcuni studi, il 50% dei voli passeggeri sono effettuati dall’1% della popolazione mondiale. Sulla base dei viaggi delle celebrità, l’impronta “aereo” dei più ricchi può essere considerata come diverse migliaia di tonnellate di CO2/anno. Lo sviluppo insensato del “turismo spaziale” può solo amplificare questa tendenza.

Tuttavia, questo consumo iper-lusso è solo la punta dell’iceberg. Non cattura le emissioni attribuibili agli investimenti capitalistici dell’1% più ricco. L’autore incorpora un lavoro che stima che il 70% dell’impronta di carbonio delle persone più ricche proviene dai loro investimenti capitalistici. Ma questa è solo una stima, complicata dall’opacità del settore finanziario.

In secondo luogo, anche applicando il suddetto coefficiente di carbonio alle emissioni delle famiglie, distribuire le emissioni del settore aziendale e pubblico su tutta la popolazione è un approccio discutibile. Non tiene conto del fatto – menzionato nello studio – che i più grandi emettitori di CO2 (l’1% più ricco) hanno “un’influenza sproporzionata sulle decisioni a causa del loro status, potere politico e accesso ai responsabili politici”. Per fare un esempio: il progetto dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes serviva i bisogni di Vinci e dei suoi azionisti, non quelli delle classi popolari. Lo stesso ragionamento vale per le spese militari e per molti altri progetti, per non parlare delle sovvenzioni pubbliche alle imprese.

Limiti dell’analisi in base al consumo

Questo è il limite di un approccio alla catastrofe climatica basato sul consumo per diversi gruppi di reddito. Infatti, poiché ogni consumo presuppone la produzione, i livelli di consumo dei gruppi di reddito devono essere analizzati alla luce delle posizioni che occupano nella produzione. L’”influenza sproporzionata” dell’1% più ricco si trova ovunque perché i membri di questo gruppo possiedono i mezzi di produzione. Sono la classe dominante e lo Stato è lo strumento del loro dominio. Le classi lavoratrici si trovano in una situazione completamente diversa: sono soggette alle decisioni di imprese e istituzioni sulle quali non hanno alcun controllo, e producono oltre i loro bisogni, per il profitto dei capitalisti. Essi sopportano quindi un volume di emissioni che deriva dalla dinamica produttivistica del capitale, non dalla loro libera volontà.

Di fronte alla mistificazione del discorso dominante che ci esorta indiscriminatamente a “cambiare il nostro comportamento”, lo studio di Oxfam ha il grande merito di mettere sotto i riflettori le enormi disuguaglianze nel consumo e di esprimerle in termini di responsabilità nelle emissioni di CO2. Inoltre, evidenzia che la politica del governo, nonostante tutti i discorsi su una “transizione giusta”, sta approfondendo l’ingiustizia climatica.

Allo stesso tempo, è facile vedere che la soluzione non può venire solo da misure prese all’interno della sfera dei consumatori. Facciamo l’ipotesi assurda che, entro il 2030, l’1% più ricco o il 10% più ricco avranno ridotto le loro emissioni a 2,3 tCO2/persona/anno. In questo caso, per rimanere entro il limite di 1,5°C, il 40% della cosiddetta “classe media” dovrebbe ancora dividere le sue emissioni per più di due nell’Unione Europea e in Gran Bretagna, per tre in Cina e per circa quattro negli Stati Uniti. Come si può raggiungere questo obiettivo? La ridistribuzione radicale della ricchezza (come proposto da Thomas Piketty), anche se essenziale, non risolverebbe il problema – lo sposterebbe soltanto. La sfida può essere vinta solo ridefinendo i bisogni reali della maggioranza sociale, organizzando la produzione secondo questi bisogni ed eliminando la produzione inutile e dannosa.

“Accettabilità sociale” si riferisce al peso degli sforzi che devono essere sopportati. Per la maggior parte delle persone, questo è un deterrente. Sono certamente necessari profondi cambiamenti, e non basta “far pagare i ricchi”. Ma dobbiamo osare pensare in termini di “desiderabilità”. Produrre meno, per i bisogni; trasportare meno, lavorare meno, condividere di più; prendersi cura delle persone e degli ecosistemi; gestire le risorse in modo sobrio, collettivo e democratico, per vivere una vita buona e confortevole per tutti: questa è la prospettiva ecosocialista che può costituire la base di un piano di riforma anticapitalista delle strutture adattate al XXI secolo. Perché una cosa è certa: non c’è via d’uscita senza sfidare la competizione per il profitto che guida il produttivismo basato sul diritto di proprietà capitalista.

*articolo apparso l’8 dicembre 2021 sul sito di Gauche anticapitaliste (Belgio). La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione del sito Rproject.it.

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