di Dario Manni e Marco Maurizi

Introduzione. Su alcuni fraintendimenti ricorrenti circa l’antispecismo politico

I.

Una nuova generazione di attivismo per i diritti e la liberazione animale si affaccia alla lotta carica non solo di determinazione e di speranza, ma anche del bagaglio filosofico e culturale dell’animalismo e dell’antispecismo così come elaborati e agiti da chi le ha precedute. Nuovi temi generano nuovi problemi teorici e nuove forme di azione. Accanto ad essi, alcuni vecchi temi continuano a far discutere e a influenzare la pratica di lotta. Alcune idee agiscono intensamente sotto la pelle del “movimento”[i], non sempre a livello consapevole ma non per questo con effetti trascurabili, anzi. Sembra dunque opportuno portare queste idee all’attenzione del movimento, risolvere qualche fraintendimento su di esse e indicare possibili percorsi per affrontare la strada davanti a noi con l’equipaggiamento intellettuale più adatto.

La diatriba fra antispecismo politico (anche detto “storico”) e antispecismo morale (anche detto “metafisico”), sviluppatasi nei libri e nei numeri delle riviste specialistiche, nei convegni, nelle conferenze e, più di recente, nei video e nei contenuti online, è parte del bagaglio di conoscenze e di esperienze maturate negli ultimi vent’anni. Essa informa pensiero e attività delle nuove leve; perlomeno, della punta teoreticamente più avanzata di esse. Non che gli effetti pratici di un’impostazione teorica – sia pure implicita – non riguardino tutto il movimento; ma è in particolare chi riflette su quell’impostazione a modificare di più il suo attivismo in base all’idea che si fa della questione.

Ora, la questione ha due aspetti tra loro intrecciati e che vanno tenuti insieme: da un lato, il problema della priorità tra l’elemento ideale dello specismo (la “discriminazione”) e quello materiale (lo “sfruttamento”); dall’altro, la natura del soggetto specista, se cioè esso vada ricondotto alla coscienza individuale (individualismo metodologico) o se invece vada inteso come processo, come risultante di forze sociali diverse, plurali e antagoniste (olismo sociologico, funzionalismo, marxismo, strutturalismo ecc.).

Il prima problema potrebbe essere posto così: se sfruttiamo gli altri animali perché li discriminiamo (antispecismo morale) o se li discriminiamo perché li sfruttiamo (antispecismo politico)[ii]; ovvero se il fatto che ci cibiamo, ci vestiamo e facciamo tutta una serie di cose a danno degli altri animali sia causato dal ritenerli inferiori, oppure se ritenerli inferiori non sia altro che una giustificazione razionale che rassicura le coscienze più sensibili e assicura la prosecuzione del loro sfruttamento.

Molte persone nel movimento risponderebbero che sono vere entrambe le cose; in un certo senso, avrebbero ragione. È vero, infatti, che l’umanità (e alcune classi sociali più di altre) trae vantaggio dallo sfruttamento degli altri animali e che ha tutto l’interesse – o almeno così pensa – a continuare a sfruttarli. Ed è vero anche che l’umanità discrimina gli altri animali, che il suo sguardo sugli altri animali è specista. Il punto è in che rapporto stiano i due termini del discorso, ovvero la discriminazione da un lato e lo sfruttamento dall’altro: se co-dipendano o se uno sia subordinato all’altro. C’è un rapporto causale fra di essi? Da dove origina l’oppressione animale?

Qui occorre introdurre il secondo problema: di cosa è fatta l’azione sociale? E’ l’effetto di azioni individuali isolate o, piuttosto, le azioni individuali sono rese possibile da un campo di forze sociali che le precede?

La sociologia, nelle sue varie articolazioni, ha studiato bene il rapporto tra questi due aspetti dell’essere sociale, ma si è ben guardata dal ridurre l’azione sociale all’agire spontaneo degli individui (che sarebbe una vera e propria negazione della natura intrinsecamente collettiva dei processi che sono oggetto del sapere sociologico). A questo proposito può tornare utile quanto scritto dal sociologo statunitense Herbert Blumer nel suo Race Relations:

Prejudice arises … through a collective process in which spokesmen for a racial or ethnic group – prominent public figures, leaders of powerful organizations, and intellectual and social elites – operating chiefly through the mass media publicly characterize another group. Such spokesmen foster feelings of racial superiority, racial distance, and a claim to certain rights and privileges. Other members of the dominant group, although having different views and feelings, fall into line fearing ingroup ostracism. The sense of group position serves as a special kind of social norm, especially for individuals who strongly identify with the ingroup. In this fashion a sense of group position – with its encompassing matrix of prejudice – becomes a general kind of orientation. It is a hypothesis, then, that views the dominant group as having a vested interest in another group’s subordination; the dominant has a stake in preserving an order characterized by privilege and advantage. Prejudice becomes an instrument for defending this privilege and advantage.[iii]

Piuttosto che originarsi dal basso e diffondersi trasversalmente a classi e gruppi sociali, il pregiudizio viene diffuso – scientemente – dall’alto, strumentalmente ad interessi per i quali il pregiudizio è sempre mezzo, mai fine. Esso è cioè funzione di tali interessi, non avrebbe, letteralmente, senso senza di essi. Si pensi alla narrazione delle destre italiane sui “terroni” prima e sui migranti poi, con il graduale allargamento dell’asse del privilegio fino ad includere soggetti che prima ne erano esclusi e che anzi erano considerati un pericolo per la sopravvivenza stessa del proprio gruppo.[iv] Oppure a certe strampalate dichiarazioni del leader di Forza Nuova Roberto Fiore sull’aver sbagliato le campagne degli anni ’90 contro romeni e albanesi, giacché il “vero” nemico del bianco europeo non può che essere l’africano! Chi immagina il pregiudizio come punto di partenza dell’agire politico della destra xenofoba e nazionalista non ha strumenti per comprendere questi slittamenti di senso: essi rimangono pure “contraddizioni” se non se ne segue la logica che si muove, in effetti, in un’altra zona, non simbolica ma materiale. Oggi l’identitarismo (a prescindere da quale sia l’identità di volta in volta in questione) appassiona visceralmente un certo elettorato, non le élites, le quali mostrano un atteggiamento più spregiudicato che ottuso, più calcolante e manipolatorio che reazionario e dogmatico.

Da dove sorge dunque il pregiudizio posto che esso va riconosciuto come una variabile dipendente e non come il punto di partenza dell’analisi sociale? David Nibert risponde elegantemente a questa domanda ricordando come il pregiudizio non vada ricondotto a una metafisica “natura umana” opprimente ma a un’euristica empiricamente fondata. Essa ci costringe a spostare il focus della domanda: come nasce la gerarchia che esercita e intensifica l’oppressione? E appare evidente che non può esserci gerarchia senza conflitto e che il conflitto, a sua volta, deve essere oggettivamente possibile e determinato da condizioni materiali che precedono ontologicamente se non cronologicamente l’istituzione della gerarchia stessa. Da un punto di vista molto generale, secondo Nibert, i fattori che favoriscono il sorgere di un rapporto di oppressione sono quindi tre, legati fra loro da rapporti causali: 1) che esistano due o più gruppi in competizione per le risorse, 2) che fra questi gruppi qualcuno abbia o acquisisca gli strumenti per imporsi sugli altri e 3) che l’assoggettamento e lo sfruttamento da parte del gruppo o dei gruppi dominanti venga normalizzato, dunque moralmente giustificato.[v] In altri termini, non occorre affatto mettersi alla ricerca del Santo Graal dell’Oppressione per giustificare comportamenti individuali e relazioni sociali egoistiche ed oppressive: esse potenzialmente valgono non solo per gli umani ma anche per tutti gli animali. Il loro attivarsi dipende dalle circostanze.

L’antispecismo politico ha ulteriormente elaborato questo approccio inserendolo esplicitamente nella cornice interpretativa del materialismo storico. Per materialismo storico si intende la teoria in base alla quale visioni del mondo e comportamenti individuali e collettivi sono condizionati dalla base materiale d’esistenza, ovvero, per dirla con Marx, dallo sviluppo delle forze produttive (persone, strumenti, conoscenze tecniche) e dei rapporti di produzione (le relazioni fra gruppi/classi, la posizione che occupano nella gerarchia sociale, il possesso che hanno o non hanno dei mezzi di produzione).[vi] In particolar modo, l’antispecismo politico prende sul serio la natura strutturante a livello globale e locale del modo di produzione capitalistico e del processo impersonale di auto-valorizzazione del capitale: non è possibile comprendere ciò che accade nella nostra società senza guardare a questo processo come ciò che sposta tutto il tradizionale discorso sulla gerarchia e l’oppressione di classe su un nuovo livello, quello in cui gli effetti di sistema sono prodotti da un meccanismo anonimo, quantificante e a-morale, in cui mai come prima, i “valori”, se non il “senso” stesso delle cose umane si disfa e viene ricomposto in forme inedite, ibride, senza alcuno scopo autonomo, ma tutte asservite alla teleologia immanente del capitale stesso. Perfino l’umano “dominatore” diventa qui un retaggio antiquato reso effetto di sistema, un fantoccio tenuto in piedi da esigenze eteronome che vede progressivamente erosa la propria agency e la propria sostanzialità dal processo di riproduzione dell’intero. Lo sfruttamento – cioè il meccanismo di produzione di valore e profitto – diventa l’alfa e l’omega delle relazioni sociali mano a mano che la legge di mercato occlude l’orizzonte del possibile. L’antropocentrismo si traduce interamente in capitalocentrismo.

II.

Qual è ora la situazione attuale dell’antispecismo politico? L’aumento del numero delle singole persone e delle organizzazioni che si richiamano a questa teoria è confortante, e indicativo dell’accresciuto interesse verso il tema e, cosa che è più importante, della consapevolezza che occorre superare il qualunquismo e il trasversalismo politico e rivendicare che la lotta per i diritti e la liberazione animale abbia un colore, una bandiera, anche se non necessariamente il colore e la bandiera di un’organizzazione politica o di un partito specifico fra quelli dell’attuale panorama parlamentare ed extra-parlamentare.

Tuttavia, basta gettare uno sguardo online per rendersi conto dell’esistenza di un attivismo che si auto-definisce “politico” (o “sistemico”, o “intersezionale”[vii], e su questa sovrapposizione torneremo fra un attimo) e che può essere ricondotto a un’area genericamente di sinistra e comunque anti-capitalista, per il quale il fine della lotta di liberazione animale non è tanto sovvertire i modi di produzione ma l’ordine mentale antropocentrico e l’ideologia specista. Questo antispecismo pone ancora al centro della questione il cambiamento del nostro sguardo sull’altro animale – ben che vada, sull’animalità in generale -, la sostituzione dell’Animale collettivo, anonimo, dell’Animale-cosa e dell’Animale-merce con l’Animale-persona, la Singolarità-Animale, il Divenire-Animale ecc. Il reale appare come qualcosa su cui lo sguardo del soggetto opera dei “tagli”, delle “dicotomie”, delle “categorizzazioni”, delle “classificazioni”: sfugge a questo modo di pensare il fatto che il soggetto stesso andrebbe pensato come qualcosa che sta dentro quel reale che pretende di categorizzare “dall’esterno”. L’idealismo si annida anche nel più feroce decostruttore dei pregiudizi e degli stereotipi. E l’idealismo è necessariamente connesso ad un moralismo intransigente e astratto.

Da qui deriva infatti quell’abituale, forte contrarietà per i “piccoli passi” delle politiche e delle organizzazioni dichiaratamente abolizioniste, cioè quelle che si pongono come fine ultimo la liberazione totale degli altri animali dallo sfruttamento umano ma che per arrivarci operano tramite un programma strategico di riforme incrementali, cioè funzionali e propedeutiche al fine ultimo. Secondo la prospettiva che fraintende l’antispecismo politico (tanto da poter essere definita “pseudo-politica”), infatti, ogni riforma parziale rischia di normalizzare lo status quo acquietando la coscienza del “cittadino-consumatore”[viii].

Si consideri, per esempio, la questione della carne coltivata. C’è chi, da posizioni antagoniste, vi si oppone – o perlomeno si oppone all’idea che l’animal advocacy dovrebbe sostenerne la diffusione – perché produrre e consumare carne coltivata non emanciperebbe dall’idea che gli altri animali non sono cibo, e dunque non scardinerebbe “il paradigma specista”. Nonostante si dichiari di aderire alla visione dell’antispecismo politico, la preoccupazione è analoga a quella dell’attivismo di prima generazione tutto intento a convertire le coscienze altrui. Si ha qui una curiosa convergenza fra antispecismo “politico” di sinistra, anti-sistema e antispecismo borghese morale-moralista. Per entrambi occorre condannare tutto ciò che rischia di alterare la purezza originaria del messaggio vegano e antispecista (ammesso che questa purezza originaria sia mai esistita, e non lo è) dato che, in caso contrario, questo messaggio perderebbe di efficacia[ix]. E visto che, come in ogni opera di evangelizzazione che si rispetti, la liberazione animale dipenderebbe dall’ampiezza e dalla qualità della diffusione di questo messaggio (nonché dalla dedizione dei suoi evangelisti), la purezza del messaggio sarebbe centrale per la realizzazione della liberazione stessa.[x]

Questo antispecismo pseudo-politico si regge su due presupposti che lo legano all’orizzonte dell’antispecismo moralistico di prima generazione: (1) l’inversione dei rapporti tra materiale e ideale; (2) l’individualismo metodologico.

(1) Il primo presupposto risiede quindi nell’incapacità di comprendere il significato che l’aggettivo “politico” ha nell’espressione “antispecismo politico” di cui si ignora e/o sottovaluta l’enfasi sui processi oggettivi e collettivi che stanno alla base dei fenomeni sociali: banalmente, la sua concezione materialistica della storia. Da ciò deriva una conseguente sopravvalutazione degli effetti e delle ricadute sociali dello “specismo” inteso come paradigma socio-psicologico svincolato da ogni riferimento alla base produttiva e classista delle società (ma lo stesso potrebbe dirsi del “carnismo” e di altri simili costrutti ateoretici, astratti e astorici). La “politicità” dell’antispecismo viene così genericamente intesa solo nel senso che l’antispecismo si sa e si pone come questione e come lotta di interesse collettivo e di rilevanza sociale, ovvero “di tutti” e non soltanto degli antispecisti. Oppure facendo generici riferimenti ai “profitti” dell’industria animale. Basterebbe “uno sguardo anche superficiale ai fatturati delle multinazionali agroalimentari e chimico-farmaceutiche – che si stanno progressivamente fondendo tra loro a costituire veri e propri monopoli tesi alla gestione completa e globale del vivente”, scrive, ad es. Filippi, a far comprendere cosa sia l’antispecismo politico. “Alla luce di questa constatazione”, prosegue infatti Filippi, “chi ancora non fosse disposto a considerare la questione animale una questione politica dovrebbe assumersi il compito di definire cosa sia la politica”.[xi] Questa interpretazione, ancorché renda correttamente conto di uno dei possibili significati più generali dell’aggettivo “politico”, non lo qualifica ancora nel senso che noi pensiamo debba avere. Senza materialismo storico, infatti, l’antispecismo politico si riduce a un approccio senz’altro utile, perché introduce la questione animale nel vasto campo delle lotte per i diritti e associa la liberazione degli animali ad altre questioni e ad altre lotte, rendendola socialmente molto più significativa di quanto non sia; ma anche meno efficace di quanto potrebbe essere, perché quel legame rimane o vago oppure, come ora vedremo, pone tutte queste lotte sul terreno idealistico e moralistico del cambiamento di “sguardo”, di “coscienza”, di “paradigma” e, in generale, della identity politics liberale. Ora, il punto è che la questione animale non è “politica” perché gli effetti dello sfruttamento animale si ripercuotono a livello globale, né, tantomeno, perché dagli animali possa estrarsi profitto. Gli animali non umani non costituiscono una questione politica di per sé, di cui dovremmo semplicemente renderci conto: essi diventano una questione politica nel momento in cui il loro destino viene teorizzato nel quadro di una riorganizzazione complessiva dei rapporti sociali e produttivi.

(2) Il secondo presupposto dell’antispecismo pseudo-politico, nonché trait d’union con l’interpretazione neoliberale della teoria dell’intersezionalità e motivo dell’identificazione impropria fra antispecismo politico e antispecismo intersezionale, deriva direttamente da questo difetto di considerazione dei processi sociali oggettivi a favore di quelli soggettivi. Per “processi sociali oggettivi” intendiamo tutti quei processi, materiali e immateriali, che sono indipendenti dalla volontà di un soggetto o di un gruppo di soggetti. Che le grandi catene di fast-food distribuiscano pasti pronti completi a base di prodotti animali a 4€, che le donne guadagnino in media il 20% in meno degli uomini o che il negazionismo climatico sia un fenomeno più radicato a destra che a sinistra, sono processi sociali oggettivi. Il singolo individuo può, a volte, emanciparsi da questi processi ma non può evitare che essi continuino ad esistere e ad avere effetti sulle altre persone e sulla società nel suo complesso. L’individualismo metodologico – cioè la concezione secondo cui il sostrato ontologico della società risiede negli individui e nelle loro azioni – impedisce di spingersi oltre la dimensione idealistica e morale dello sfruttamento animale.

L’antispecismo pseudo-politico intersezionale proietta così sulle altre lotte ciò che già proietta sulla lotta per i diritti e la liberazione animale: il suo approccio neoliberale. Vediamo perché e in che senso.

Intersezionalismo socialista o socialismo intersezionale?

I.

Ovviamente non stiamo sostenendo che ogni militante antispecista intersezionale sposi coscientemente l’agenda politica neoliberale. La questione va posta, anche qui, in termini oggettivi, non soggettivi: ciò che le persone ritengono di sostenere è meno rilevante della struttura soggiacente i loro discorsi. Il problema infatti non è tanto la penetrazione dell’ideologia neoliberale nella società capitalistica avanzata a livello cosciente ma il fatto che essa renda spesso impliciti, e dunque occulti, i presupposti di ogni discorso politico. L’egemonia si ottiene non soltanto attraverso la diffusione positiva di certe idee e valori ma anche attraverso la cancellazione dall’ordine del discorso di idee e valori alternativi. La rimozione delle categorie centrali del socialismo dopo il crollo dell’URSS è stata pressoché totale a livello di cultura di massa con conseguenze devastanti per la teoria e la prassi di chi si autodefinisce anti-capitalista[xii].

L’intero problema del modo di produzione è stato infatti eclissato portando inevitabilmente ogni discorso a muoversi spontaneamente a livello della sovrastruttura piuttosto che della struttura, ovvero a livello culturale, filosofico e giuridico, piuttosto che economico. La contraddizione capitale/lavoro viene cancellata nei suoi effetti sistemici e ridotta a banali e ateoretiche opposizioni tra ricchezza e povertà, élite e popolo ecc. I corrispondenti processi oggettivi vengono personificati, con inevitabili cadute nel moralismo (quando non finiscono direttamente nelle derive complottiste[xiii]).

Ora, la contraddizione capitale/lavoro, a differenza di tutti paradigmi “dominanti” che il costruttivismo filosofico vorrebbe “smontare” e “demistificare”, non si lascia decostruire[xiv]. Quell’opposizione oggettiva non smette di operare perché noi proviamo a pensare il mondo altrimenti. Essa anzi attribuisce ad ognuno il suo ruolo nell’apparato produttivo (come produttori di valore o beneficiari della sua trasformazione in profitto), vuoi direttamente, come lavoro salariato, vuoi indirettamente, come lavoro improduttivo/intellettuale, commerciante o sottoproletario. In quanto motore della sfera produttiva, essa finisce per determinare sia l’orizzonte della libertà positiva individuale (il suo contenuto, cioè i bisogni che è materialmente possibile soddisfare), quanto soprattutto la cornice strutturale della libertà collettiva (cioè la sua forma, il modo in cui quei bisogni vengono soddisfatti e riprodotti).

II.

Riuscire a teorizzare il problema del modo di produzione permette anche di impostare correttamente il problema dell’identità del soggetto individuale di cui si pretende parlare. La vulgata dell’intersezionalismo liberal vorrebbe infatti che esistessero una serie di “identità” (più o meno rigide) che aspirerebbero al riconoscimento, cioè all’uguaglianza di trattamento, dunque di diritti, da parte dello Stato o della comunità variamente intesa. Questo nocciolo della cosiddetta identity politics di matrice liberale deve necessariamente ignorare che quelle identità non preesistono alle loro relazioni, semmai ne derivano. Non è possibile intravedere questo se non si coglie la questione della forma della produzione come prioritaria rispetto alla soddisfazione – ma in realtà già alla formulazione – dei bisogni. La relazione ci introduce direttamente alla sfera ontologica dell’essere-con e dell’essere-tra, è cioè qualcosa che attraversa i soggetti, investe dunque la forma stessa della soggettività. Non esistono soggetti che si mettono in relazione: esistono relazioni che producono soggettività. E queste relazioni non sono “atti” di singoli individui (magari atti che si “ripetono” nel tempo e si “istituzionalizzano”), bensì costituiscono lo spazio di senso in cui gli individui si trovano loro malgrado “gettati”.

Per questo fa sorridere il modo in cui questo attivismo allude ai problemi relativi alle classi: essi vengono spesso ridotti al chiacchiericcio sulle identità e “classismo” finisce per significare qualcosa di analogo a “razzismo” e “sessismo”. Si origina così una confusione babelica, poiché essere oggetto di classismo evoca più un atteggiamento di colletti bianchi con la puzza sotto al naso che il meccanismo di autovalorizzazione del capitale attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro. Ma il CEO di una grande multinazionale non ha nessun bisogno di praticare questo tipo di “classismo” per estrarre valore da chi è alle sue dipendenze: gli basta che esista il semplice rapporto di lavoro subordinato.

Da questo punto di vista, il nero non è sfruttato in quanto nero, la donna non è sfruttata in quanto donna, il disabile non è oppresso in quanto disabile. L’attivista intersezionale, che non pone correttamente la distinzione tra discriminazione e sfruttamento, arriverà al massimo a dire che il nero è “oppresso” in quanto nero e anche in quanto donna, disabile ecc… È un discorso analogo a quello che fa l’antispecismo morale sull’altro animale, che sarebbe oppresso in quanto altro animale, o dell’animale di sesso femminile, che sarebbe oppresso in quanto animale e in quanto animale di sesso femminile.[xv]

Tuttavia, termini come “classe”, “lavoratrice” e “socialista” non sono omogenei a “razza”, “specie” o “binario”: c’è un salto logico dalla prima batteria di termini alla seconda che impedisce di usarle indifferentemente in una lista. Il “salariato nero gay” non è un puzzle di identità che si sommano. Questo perché “salariato” esprime una relazione immediatamente sociale, la cui essenza si collega direttamente alla totalità sociale a partire dal meccanismo di valorizzazione capitalistica che se ne colloca al centro[xvi]. Per pensare adeguatamente questa relazione occorre infatti pensare la dialettica aperta e in divenire, il processo conflittuale soggiacente, tra (1) quel meccanismo di auto-valorizzazione, (2) il mercato come luogo universale dello scambio e (3) l’estrazione della forza-lavoro. Da un lato, dunque, la potenza impersonale del capitale come impulso inarrestabile all’accumulazione e alla crescita, la produzione cioè di una ricchezza astratta che domina e “strega” i rapporti sociali sottomettendoli alla propria meccanica interna. Al lato opposto, la singolarità della persona che percepisce un salario e che entra in questo rapporto solo come corpo portatore di forza-lavoro e tempo, un elemento naturale che si trova suo malgrado coinvolto in ciò che ne definisce le possibilità di vita. Al centro, il luogo della mediazione universale, dello scambio che, nel momento in cui soddisfa oggettivamente i bisogni, stabilisce una certa rete di rapporti a livello locale e globale.

Quello che emerge da questa considerazione è un processo di universalizzazione materiale in cui si esprime l’essenza del conflitto capitale-lavoro. Esso è di altra natura rispetto ai processi di universalizzazione formali che si svolgono nella sfera del diritto, a partire dal “riconoscimento” che lo Stato, o le comunità, fanno degli individui nella loro particolarità. La differenza tra questi due processi è analoga a quella che passa tra democrazia sostanziale e democrazia formale. Mentre nel secondo caso, l’elemento decisivo è l’abolizione della discriminazione e la piena realizzazione del soggetto di diritto borghese, del “cittadino” depurato di ogni limite tradizionalmente o naturalmente ereditato, nel primo caso l’elemento decisivo è l’abolizione progressiva dello sfruttamento. Solo in questo modo è garantita un’effettiva partecipazione delle classi popolari alla determinazione non solo dell’esistenza dei singoli individui all’interno di un ventaglio di scelte imposto dalle condizioni date ma la definizione e l’ampliamento stesso di questo ventaglio di scelte: alle classi subalterne viene cioè progressivamente trasferito il potere di determinare l’orizzonte del possibile in cui si muovono. Ciò non è però realizzabile senza un’azione politica collettiva che (a) redistribuisca la ricchezza prodotta e, soprattutto, (b) riporti nelle mani dei produttori la macchina sociale complessiva.

III.

Il superamento da sinistra del modo di produzione capitalistico passa attraverso il completamento e l’esaurimento di questo processo di universalizzazione materiale, non la sua negazione astratta e velleitaria. Il socialismo è cioè al tempo stesso la realizzazione e il rovesciamento dei processi di socializzazione messi in moto dal capitalismo: esso istituisce in questo modo le condizioni di possibilità di un’effettiva autodeterminazione dell’umanità come specie al di là dei limiti arbitrari e irrazionali della tradizione, del tempo e dello spazio, ma anche del profitto. Il socialismo segue il capitalismo come un’ombra perché la sua possibilità reale è insita nella meccanica interna di quest’ultimo: la costituzione dell’umanità come collettività globale in grado di determinare e soddisfare i propri bisogni è l’effetto indiretto di quel processo di accumulazione ed espansione innescato dal modo di produzione capitalistico. Ciò che una volta veniva denunciato come “industrialismo” o “sviluppismo” della sinistra operaia non era che un equivoco legato ad una certa fase dell’affermarsi del capitalismo: oggi l’avanzamento del sapere tecno-scientifico, inclusi gli sviluppi dell’ecologia e dell’etologia, permettono di immaginare il “progresso” come qualcosa che si muove in tutt’altra direzione.

Non avendo sciolto questo nodo, persiste invece una certa ambiguità del modo in cui molta sinistra anti-capitalista intende la negazione del capitalismo. Se quest’ultimo non viene inteso, tecnicamente, come modo di produzione, si finisce per parlare in generale di “società capitalistica”, identificandola di fatto con uno “stile di vita”. Da qui l’insistenza di molta militanza sul valore positivo del premoderno, sull’investire di valore rivoluzionario ciò che è un puro e semplice retaggio anacronistico di società arcaiche, pre-illuministiche, con tutto il proprio carico di ottusità particolare. Ora, che il premoderno e il pre-capitalistico possano fornire un’imago della liberazione, possano anche permettere poeticamente di pensare l’altrove rispetto all’oggi è un fatto di cui testimonia buona parte dell’arte, della letteratura e della musica degli ultimi due secoli. A suo modo, il culto della “lentezza”, dei rapporti “immediati”, del “dono” può senz’altro mimare quella condizione di trasparenza e di libertà che immaginiamo caratterizzi una società radicalmente democratica in senso sostanziale come l’abbiamo descritta prima. Ma, appunto, solo fintanto che si sia consapevoli che tutto questo rimane a livello poetico non teorico, non cioè quando si pretende elevare queste immagini a concetti.

Questa incapacità di pensare il modo di produzione e di confondere quindi la critica oggettiva del capitalismo con una critica di tipo soggettivistico e morale è un errore comune sia nei rossobruni, che nella sinistra antagonista. Pensiamo a un certo culto del “selvaggio”, della “semplicità” e della “schiettezza” che trova un proprio modello nei rapporti premoderni e che porta i rossobruni a criticare come artificiali e falsi i bisogni che emergono dalle sensibilità antispeciste o queer (ad es. la romanticizzazione della caccia come rapporto naturale e paritario, la critica alla fragilizzazione/femminilizzazione del maschio ecc). Viceversa, pensiamo a quella sinistra antagonista che assume come compito l’emancipazione dei paria delle società tradizionali invertendo di segno lo “stigma” da cui essi erano caratterizzati nell’ordo patriarcale, spiritualista e borghese: i folli, i diversi o le prostitute[xvii].

È curioso come rossobruni e certa sinistra liberal pensano il “lavoro più antico del mondo”: cioè, rispettivamente, la caccia e la prostituzione. Mancando il tassello del materialismo storico le prospettive appaiono curiosamente speculari. I primi cercano di sottrarre la caccia al discredito in cui è caduta in seguito all’emergere della sensibilità ecologista, animalista e antispecista. La seconda vuole sottrarre il fenomeno del sesso a pagamento al discredito cui è tradizionalmente associato. Questo “recupero” e questa “valorizzazione” si muovono in senso opposto ma convergente. La caccia non è solo un mestiere, un lavoro, un’attività qualunque ma la sua stessa antichità le garantisce un’aura di purezza, se non di sacralità, qualcosa che ci collega direttamente alla “natura” da cui non dovremmo allontanarci. Viceversa, la prostituzione dovrebbe essere finalmente riconosciuta come un mestiere, un lavoro al pari degli altri, anzi andrebbe valorizzata la sua capacità di mettere in discussione i tabù, qualcosa che lo lega essenzialmente all’orizzonte illuministico, laico e moderno. Se ora colleghiamo queste due strategie al modo di produzione capitalistico vediamo come esse risultino inevitabilmente ambigue da un punto di vista politico. La critica antispecista all’industria alimentare viene disinnescata inglobandola nel fenomeno della caccia, riconducendola così ad un contesto “naturale” che “normalizza”, rende inevitabili (“è sempre stato così”) e alla fine giuste le sevizie compiute sui corpi degli animali non umani. Viceversa, la critica al sesso a pagamento viene smontata inglobandola nel fenomeno del lavoro, riconducendola così ad un contesto di “civiltà” che “normalizza” e sottrae all’orizzonte della violenza (“è una scelta”), giustificandolo, ciò che si compie nei confronti del corpo (femminile). Ciò che nell’industria rivela un aspetto nero, corrosivo e distruttivo viene così conciliato grazie alla sua riduzione ad una natura originaria che disinnesca tutte le contraddizioni. Similmente, il sesso a pagamento che nell’orizzonte patriarcale e spiritualistico ha sempre segnato una certa sopravvivenza dell’aspetto nero, corrosivo e distruttivo della natura viene disinnescato nel suo potenziale eversivo e conciliato con il mondo unidimensionale della civiltà industriale di cui non rappresenta che una delle tante prestazioni. Interessante come in entrambi i casi ci sia un fattore progressivo ed uno regressivo all’opera, almeno potenzialmente. Nel primo caso sarebbe possibile muovere nel senso opposto a quello appena indicato: cioè vedere nella caccia già una forma di industria, ovvero comportamento non naturale ma civilizzatorio, una “seconda natura”, un processo mediato di estraneazione e oggettivazione della natura stessa (genitivo soggettivo e oggettivo). Ovviamente ciò non avviene, anzi, ai rossobruni interessa mistificare l’industria, piuttosto che demistificare la caccia. Ma anche il potenziale emancipatorio del sesso a pagamento è notevolmente ridotto. Perché se, da un lato, si può valutare positivamente un atteggiamento laico e disincantato che considera la sessualità qualcosa di “naturale” e quindi lo desacralizza, dall’altro non si può tacere come tutto questo avvenga perché si fa del mercato una “seconda natura”, se ne introietta e “normalizza” l’ideologia. Mentre la caccia e l’industria del massacro animale non hanno però modo di essere salvati dalla critica di cui sono fatti oggetto, il programma progressista di emancipazione della prostituzione dal disprezzo e dai tabù che sono effetto di una tradizione religiosa e maschilista, l’idea nobilissima di incoraggiare la costituzione delle sex workers in soggetti autonomi e autodeterminati, rimane così un progetto emancipativo a metà. Si tratterebbe infatti di far emergere dal premoderno quel fenomeno e introdurlo a pieno diritto nel mondo della civiltà industriale ma solo per poterlo abolire come tutto il lavoro salariato. Sex work? Sex labour! Perché si possa infine dire: Ne travaillez jamais!

Concentrandosi sul pregiudizio che il “sex” produce nei reazionari e nei rossobruni, molto attivismo non pensa infatti fino in fondo quel “work”. Una delle strategie seguite, ad es., è quella di negare che nel sex work ci si trovi davanti a fenomeni di “schiavitù”, di “mercificazione del corpo”, che le scelte dei soggetti coinvolti siano condizionate e “non libere” ecc. Ma questa strategia, comprensibile se si tratta di rintuzzare i pregiudizi patriarcali e sessuofobi, diventa controproducente perché impedisce di pensare quanto una forma indiretta ma reale di schiavitù, la mercificazione del corpo e l’illibertà siano invece caratteristiche universali del lavoro dipendente. Negando che questo avvenga laddove è più evidente la condizione di subalternità di soggetti “stigmatizzati” ci si impedisce di vedere la continuità tra la “prostituzione” del sex worker e quella del salariato: concentrandosi sullo stigma di chi non è ancora pienamente “cittadino” ci si impedisce di leggere la condizione di subalternità anche di chi lo è già. Si finisce così per sposare l’agenda neoliberale che vuole gli individui liberi di trovare sul mercato la domanda che incontri la propria offerta. Si identifica il sex worker con una sorta di “artigiano del sesso” e piccolo professionista, se non imprenditore di sé stesso. Il rossobruno è così il militante liberal di sinistra visto di spalle. Gli occhi romantici del primo gli fanno vedere il macello industriale come una fiocina di Robinson Crusoe. Gli occhi cinici del secondo gli fanno vedere la Lupa, Lulù e Mamma Roma come tante Chiara Ferragni che non ce l’hanno fatta.

IV.

Ma è soprattutto rispetto allo scopo, cioè all’orizzonte post-capitalistico, che queste tendenze falliscono il colpo. Come abbiamo avuto modo di sostenere, l’errore della identity politics di sinistra sta nel vedere tutte le “identità” come connesse tra di loro senza porre un discrimine tra il concetto di “classe” e quelli di “razza”, “genere”, “specie”, “disabilità” ecc. Il socialismo non è un’identità tra le altre ma un asse attorno a cui ruotano quelle identità[xviii]. Perché è essenziale al progetto socialista che tutti i soggetti abbiano la stessa possibilità di contribuire alla sua lotta e alla sua realizzazione senza discriminazioni: fa parte della sua natura radicalmente democratica l’abbattimento di tutti i pregiudizi che impediscano lo sviluppo della solidarietà all’interno di un progetto condiviso. In questo senso, il socialismo non può che essere intersezionale. Ma ancora più importante è pretendere che l’intersezionalismo sia socialista perché senza un’idea determinata del tipo di società per cui si lotta da un punto di vista materiale si cede ad ogni tipo di confusione interclassista e neoliberale, si depotenzia la lotta al capitale e quindi ci si impedisce di porre le condizioni per la realizzazione di un mondo effettivamente democratico, al di là delle leggi di mercato e del profitto.

Una caratteristica diffusa dell’intersezionalismo militante è invece non a caso l’idea che la mia battaglia deve diventare quella delle altre persone. Ora questa è un’idea armonizzante che si fonda o sul presupposto della “conciliazione” o “composizione” giuridica tipica del contrattualismo liberale, oppure su un’idea vaga di società “orizzontale”. Su quali basi sia possibile pretendere questa convergenza, questa “armonizzazione” non è chiaro. Talvolta si fanno discorsi generici sulla “violenza” o il “dominio” come se ci fosse una radice comune alle diverse forme di oppressione, altre volte la pretesa viene semplicemente enunciata senza fondarla. In realtà questa convergenza è oggettivamente possibile solo come convergenza di scopo, in senso teleologico, guardando alla società futura che si intende realizzare insieme. Non come contratto o come sogno ma come progetto politico, plurale e conflittuale che cerca una base materiale. Perché questa “conflittualità” sia rivolta verso lo stesso obiettivo occorre infatti smarcarsi dalla nozione liberale e post-moderna secondo cui il mondo è “sbagliato” perché lo pensiamo male e dobbiamo semplicemente liberarci dei pregiudizi, occorre invece indirizzarla verso l’ordine materiale delle relazioni produttive senza le quali nessuna società può anche solo essere pensata.

Questo problema diventa parossistico nel caso dell’antispecismo intersezionale caratterizzato dal paradosso per cui i soggetti che lottano contro la discriminazione, cioè gli umani antispecisti, non coincidono con i soggetti discriminati e che si vorrebbe contribuire ad autodeterminare[xix]. Mentre quindi i soggetti umani discriminati possono far valere direttamente i propri desiderata nei confronti degli altri soggetti umani qui l’umano antispecista pretende che (a) il suo “pensiero” sugli animali non umani venga accolto dagli altri umani come legittimo rappresentante del pensiero degli animali non umani su sé stessi e che, in conseguenza di ciò, (b) gli altri umani adottino il suo “stile di vita” inteso come (c) conseguenza logica ed etica di quel pensiero. Né (a), né (b), né (c) sono, a rigor di termini, necessariamente veri e condivisibili.

Risulta infondata, quindi, la pretesa che le altre lotte adottino quella per i diritti e la liberazione animale pena la loro parziale o totale delegittimazione. Questo cambiamento atteso si traduce, sul piano pratico, nell’aspettativa che le persone animatrici delle altre lotte diventino antispeciste, e innanzitutto vegan, ovvero nella pretesa del cambiamento delle coscienze prima e a prescindere dal cambiamento dei modi di produzione.[xx] Il ruolo dell’organizzazione animalista antispecista e delle concrete persone che entrano in contatto e magari collaborano attivamente, per un periodo, con persone di altre organizzazioni e che portano avanti altre lotte, è qui inteso come di ispirazione; il suo compito è predicare efficacemente la buona novella vegana e antispecista. Quando poi il cambiamento atteso non si verifica, capita che l’organizzazione animalista antispecista si allontani dalla/e organizzazioni con cui ha collaborato, complice la frustrazione e l’idea che le altre persone non siano sufficientemente sensibili o intelligenti. A questo punto, purtroppo, a volte segue, come per proiezione, la disaffezione non solo nei confronti di quelle persone, ma anche nei confronti delle loro cause. La convergenza delle lotte, perseguita per ragioni e finalità sbagliate, crea la massima divergenza.

Conclusione. Oltre la mostruosa libertà del capitale

Sulla scorta di Deleuze e Guattari, Mark Fisher, noto amante della settima arte, descrive il capitalismo come “molto simile alla Cosa del film di John Carpenter: un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”.[xxi] Non che forme precedenti di capitalismo fossero così diverse da quella di cui parla, ma il capitalismo di Fisher è, in particolare, il capitalismo della globalizzazione neo-liberista. La base materiale di questa caratteristica del capitale e della sua “mostruosa” idea di libertà è la natura contraddittoria del processo di accumulazione capitalistico, caratterizzato, al tempo stesso, da un impulso espansivo e dalla circolarità. Il capitale si accresce tornando su sé stesso, realizza il proprio ciclo espandendosi e producendo il proprio stesso presupposto[xxii]. Il mondo è posto dal capitale a propria immagine perché il capitale pone sé stesso e tutte le relazioni che gli permettono di perpetuarsi.

Si comprende allora come anche l’atteggiamento “colonizzatore” nei confronti delle altre organizzazioni e degli altri movimenti, ovvero l’opportunismo e la loro strumentalizzazione, riveli al fondo un’anima neoliberale. Tipica del liberalismo e del neoliberalismo, infatti, è questa pervasività strisciante, un’aspirazione totalitaria più o meno implicita che si accompagna a un atteggiamento plastico, a una certa duttilità che studiosi molto diversi fra loro hanno indicato come suo tratto caratteristico e adattivo. Lo storico Domenico Losurdo, per esempio, parla di questa duttilità come di una delle “forze” del liberalismo, di una delle ragioni per cui esso si è trasformato nel tempo ed è arrivato, dominante, fino a noi.

La libertà liberale nasce come rifiuto dell’arbitrio e dell’ingiustizia tipiche di una fase premoderna, inadeguata alla nuova razionalità formale che si andava sviluppando dopo il Rinascimento e la Riforma: qui la razionalità sociale identifica la giustizia come il processo per cui “tutti”, cioè “ognuno”, deve poter fare x. Che poi questa x si realizzi o meno è un altro discorso: l’eguaglianza sta nel punto di partenza, la normalità è invece la diseguaglianza dovuta al merito individuale. Questo tipo di razionalità e di giustizia sociali è formale anche nel senso di non essere conflittuale al proprio interno (cioè nella sfera giuridica) poiché rivolge essenzialmente la propria conflittualità verso l’esterno (cioè nella sfera economica). In questo senso essa occulta quell’altra forma della razionalità e della giustizia sociali che si oppone all’ordine economico dato, quella delle classi subalterne e dei popoli colonizzati. La libertà socialista deve muoversi in senso opposto.

L’aspirazione liberale alla libertà, dapprima completamente negativa (ovvero la libertà del “cittadino” dallo Stato), ha poi via via cambiato forma arrivando a integrarsi con la libertà positiva del diritto democratico. Ma per nutrire i suoi “liberi”, liberalismo e neo-liberalismo danno loro in pasto gli “schiavi”. Non è un caso che uno degli ultimi grandi padri della tradizione liberale, precursore dell’illuminismo e autore di un’Epistola e di un Saggio sulla tolleranza religiosa, John Locke, fosse anche uno schiavista perfettamente convinto della coerenza delle sue idee. Nella Francia post-rivoluzionaria che si appresta a consegnarsi a Napoleone,

…il partito liberale, che si va via via costituendo, si definisce […] sì contro la monarchia assoluta ma anche, e forse soprattutto, contro le masse popolari e la loro volgarità. L’attenzione è rivolta al Terzo stato, a quegli ambienti dove “una sorta di agiatezza consente agli uomini di ricevere un’educazione liberale”. Ad esprimersi così è Sieyès, che poi svolge un ruolo importante in occasione del 18 brumaio 1799. A suggellare il colpo di Stato è la “Proclamation du général en chef Bonaparte”, che annuncia la “dispersione dei faziosi”, cioè dell’agitazione popolare e plebea, e il trionfo delle “idee conservatrici, liberali, tutelari”.[xxiii]

In Inghilterra, in America, in Francia, i liberali, che si chiamavano anche “nati bene”, si sono sempre definiti in opposizione a chi libero non era. Hanno sempre, orgogliosamente rivendicato un’identità non servile e, al tempo stesso, escludente. Per i liberali, la libertà altrui, che proverbialmente termina dove inizia la propria, è sempre stata meno importante di quest’ultima; anzi le è sempre stata di ostacolo, perché il liberalismo non è la filosofia politica “di tutti” (non c’è mai stata una filosofia politica “di tutti”, nel senso di tutte le classi e i gruppi sociali): è, invece, la filosofia dei borghesi che si liberano dalla morsa del potere monarchico assolutistico, dalla repressione feudale e religiosa e, in epoca contemporanea, dal cadavere del welfare State, che hanno contribuito ad uccidere, e dall’economia regolamentata. Questo processo di fusione fra Stato e liberalismo/neoliberalismo ha attraversato quattro secoli di storia sciogliendo e modellando in sé la materia viva e sanguinante delle popolazioni colonizzate e della nuova servitù urbana e periurbana, gli iloti e i perieci del nostro tempo.

Punto di contatto fra liberalismo, neoliberalismo e capitalismo, l’assolutizzazione della libertà individuale come valore supremo e innegoziabile confligge con la sua determinazione di classe; ma anche con la sua natura astorica, metafisica. Categoria vuota di significato perché non si riferisce a qualcosa di concreto, l’individuo del capitalismo liberale e liberista è un feticcio, un idolo, anzi un idolum baconiano: un’illusione mentale. In effetti, nelle nostre democrazie liberali, l’individuo esiste solo come miraggio.

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose; della concentrazione di imprese individuali in società per azioni più efficaci e più produttive; della regolazione della libera concorrenza tra soggetti economici non egualmente attrezzati; della limitazione di prerogative e sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse.[xxiv]

Di fronte alla paradossale (nel senso di Zenone: “che va contro l’opinione comune”) scomparsa dell’individuo nella società individualistica, di fronte alla sua massificazione, all’anonimia, all’infinita sostituibilità dell’individuo contemporaneo, la versione neoliberale dell’intersezionalità[xxv] è cieca e sorda. Parla di scelta e di libertà quando le scelte sono scelte altrove e la libertà, per come si è andata costituendo nelle democrazie liberali, implica la schiavitù altrui; sovrastima il peso dell’appartenenza a un gruppo sociale ipostatizzato e definito non tramite i rapporti di produzione, ma tramite se stesso. Nel post-strutturalismo, la versione neoliberale dell’intersezionalità riduce i processi sociali oggettivi all’interpretazione di un Sé ipertrofico. Per esempio: “Like sex workers, mail-order brides are commonly depicted as victims of patriarchy and the ultimate symbol of female oppression … Instead, [agency] allows us to see how woman assert dignity, express strength, and in doing so resist and transform the role and image of passive sex object and submissive wife”.[xxvi] Apparentemente, i sistemi di dominio sono semplicemente negati e ogni pratica, anche la più mercificante, cessa di essere tale purché sia stata scelta.[xxvii] Non siamo troppo lontani dalla legittimazione della schiavitù volontaria. Ora si dà il caso che questa sia la prassi contraria a quella rivoluzionaria perché mira, come scriveva Simone de Beauvoir, a “trasformare la mentalità degli oppressi e non la situazione che li opprime”.[xxviii] Il neoliberalismo ci consegna alla psicosi di un Soggetto decontestualizzato, assolutizzato e assunto a misura di tutte le cose; che in realtà è schiavo dell’ordine di cose presenti. E tuttavia è proprio per la sua condizione concreta che non bisogna essere troppo severi con il Soggetto dell’agency neoliberale. In fin dei conti, esso sogna il sogno consolatore dello schiavo che, non avendo potuto cambiare la sua condizione nella realtà, l’ha cambiata almeno nell’immaginazione. La società nella quale si sviluppano le retoriche circa l’identità e l’agentività che abbiamo sia pur parzialmente rappresentato, del resto, è la società fondata sulla negazione dell’individualità, è la società della crisi della democrazia, del rapido aumento delle disuguaglianze economiche e dell’approssimarsi della peggiore catastrofe della storia del genere umano: quella legata al collasso eco-sistemico.[xxix] In questo contesto, la possibilità stessa della liberazione a molte persone appare negata, ridotta al miglioramento delle condizioni individuali di esistenza o posta in un futuro che però non funge da fine cui l’azione politica debba tendere. La lontananza dell’obiettivo agisce, anzi, da dissuasore per l’azione politica (questa volta sì, “politica” semplicemente nel senso di collettiva e orientata al bene comune).

Spinti sullo sfondo come elementi secondari i rapporti di produzione, e ridotti più che altro ad accessori must-have dell’anticapitalismo neo-liberale, la scena è riempita dall’Individuo astratto e astorico, dall’idea “platonica” di individuo. Poiché l’individuo è un feticcio la sua agency e il suo empowerment hanno sempre un carattere illusorio e teatrale. Esse cadono vittime di questa auto-illusione per cui il soggetto si realizzerebbe in una forma mitica di intensità, nella stessa credenza di porsi come soggetto. All’individuo che scompare dalla scena politica divenendo appendice della produzione fa da compensazione la magica fede nel suo ergersi a soggetto nella sfera del consumo e del riconoscimento. Esso deve credere in sé stesso per essere sé stesso: questo il balsamo dell’ideologia neoliberale che certo viene incontro ad un bisogno di riconoscimento dei soggetti discriminati ma solo perché così sottrae loro le leve del cambiamento reale della propria condizione di sfruttati. Alla pretesa di riconoscere la agency di questa o quella soggettività andrebbe piuttosto sempre opposta la domanda: per fare cosa? Una agency che non è rivolta alla lotta contro il capitale, nel luogo in cui questo produce sé stesso e il proprio dominio sociale, non è agency ma passiva accettazione del corso del mondo. Ora si tratta di cambiarlo.


[i] [i] Il virgolettato è dovuto all’estrema farraginosità dell’animal advocacy italiana. Non che non sia possibile, in assoluto, tracciarne alcune linee che la rendano riconoscibile, ma si nota fortemente la “mancanza di una precisa identità collettiva: manca un “noi” essenziale e condiviso, e sono più spesso le logiche di area, quando non addirittura quelle di gruppo, a prendere il sopravvento” (Niccolò Bertuzzi, I movimenti animalisti in Italia. Strategie, politiche e pratiche di attivismo, Milano, Meltemi, 2018, pag. 118)

[ii] La questione è posta esplicitamente in Marco Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Aprilia, Novalogos, 2011. In particolare, si veda a pag. 23

[iii] Cit. in David Nibert, Animal rights/human rights: entanglements of oppression and liberation, U.S.A., Rowman&Littlefield publishers inc., 2002, pag. 9

[iv] https://www.linkiesta.it/2018/03/tutte-le-giravolte-di-salvini-il-militante-padano-che-si-e-scoperto-it/

[v] David Nibert, Animal rights/human rights: entanglements of oppression and liberation, U.S.A., Rowman&Littlefield publishers inc., 2002, pag.13

[vi] “Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico”. Karl Marx, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 2018, pag. 87

[vii] Da “intersezionalità”, termine coniato dalla giurista e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw, denota sia la sovrapposizione di identità sociali (per es., il fatto di essere nere, proletarie e disabili) e l’effetto sommatorio/moltiplicativo delle oppressioni di queste identità; sia la possibilità/opportunità e financo la necessità della convergenza delle lotte di liberazione

[viii] Giorgio Cesarale, “Dal popolo ai suoi soggetti: cittadini, denizens, lavoratori nell’epoca neoliberista”, Consecutio Rerum. Rivista critica della postmodernità, 30 giugno 2020.

[ix] Sul rapporto tra efficacia e coerenza, tra argomenti diretti e indiretti cfr. M. Maurizi, Antispecismo politico.

[x] Sia detto per inciso che il nostro scopo non è difendere la carne coltivata, ma indicare che, ammesso e non concesso che dovremmo opporci ad essa, spesso ci si oppone per i motivi sbagliati. Ci sembra, per esempio, molto più significativo porsi il problema della sussistenza di almeno alcuni, piccoli allevamenti per il prelievo dei campioni cellulari per i bioreattori; e dunque dello sfruttamento animale tipico degli allevamenti, che va dalla detenzione degli animali allevati alla loro riproduzione forzata fino al mantenimento/manipolazione artificiale della razza onde soddisfare le richieste del mercato in termini di gusto e varietà di scelta. Un’altra fonte di preoccupazione dovrebbe essere la natura intimamente capitalistica dell’industria della carne coltivata, caratterizzata dalla contrazione della produzione in sempre meno mani sia per via della complessità e della costosità della tecnologia utilizzata e di come essa ben si presti alla brevettazione; sia per via della strutturale riduzione dei siti produttivi che essa comporterebbe e che a sua volta implicherebbe una grossa perdita di posti di lavoro rispetto ad oggi

[xi] Massimo Filippi, Questioni di specie, elèuthera, 2017, pp. 32-33

[xii] Questo, ovviamente, senza nessun rimpianto per gli aspetti autoritari e criminali di quel modello: si tratta semplicemente di constatare come l’esistenza di quella metà del mondo rendesse, con la sua semplice presenza, l’orizzonte del socialismo una possibilità reale che non poteva essere ignorata.

[xiii] Cfr. M. Maurizi, L’animale pandemico. COVID-19, crisi della razionalità ed ecosocialismo, su Voci Sinistre, 2021.

[xiv] Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, Jaca Book, Milano 2018.

[xv] È vero che, per esempio, l’apparato riproduttivo delle vacche è sfruttato dall’industria del latte, e che il fatto che producano latte quando partoriscono viene messo a valore dal sistema. Ma non è messo a valore, come invece in certe narrazioni antispeciste “intersezionali”, perché le vacche sono femmine. Piuttosto, perché è sfruttabile.

[xvi] Si tratta di un “centro” ubiquo, situato nella sfera della produzione, non immediatamente identificabile per la sua stessa natura totalizzante ma che va teoreticamente pensato come centrale se non si vuole perdere completamente l’orientamento. “Essenza” e “totalità”, contrariamente a quanto ritiene la scialba filosofia post-strutturalista, non sono “fissazioni” metafisiche del pensiero che andrebbero “decostruite” ma effetti oggettivi del capitale che si tratta di superare praticamente. Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, cit.

[xvii] In alcuni casi – pensiamo alle disabilità fisiche o psichiche – questo difficilmente può avvenire senza mettere in discussione il modo di produzione vigente cui la performatività è essenziale: eppure, anche qui, il discorso sulle disabilità e la neurodivergenza si incentra quasi sempre sui “vissuti” e sulla “discriminazione” rispetto ad un “modo di pensare” dominante e quasi mai arriva a porre come obiettivo primario il rovesciamento materiale della società che è alla base di quel modello di performatività.

[xviii] Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, cit.

[xix] Ovviamente l’antispecismo politico che noi difendiamo non ha questo problema, perché intende la dialettica umano/non-umano in modo da pensare il “soggetto animale” come inserito in un processo globale di autodeterminazione. Cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit.

[xx] Per quanto questo cambiamento, vogliamo specificarlo, sia certamente auspicabile, non è attorno ad esso che possono porsi le basi per un lavoro e una lotta comune, né è soltanto attorno ad esso che queste basi possono essere trovate e utilizzate già oggi. Si pensi alla questione ambientale e all’impatto degli allevamenti intensivi ed estensivi sugli ecosistemi, una piattaforma di lavoro comune già pronta

[xxi] Mark Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, pag. 33

[xxii] Sulla teoria del capitale come presupposto-posto cfr. R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economicopolitica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020.

[xxiii] Domenico Losurdo, Controstoria del Liberalismo, Bari-Roma, Editori Laterza, 2005, pag. 241

[xxiv] Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1999, pag. 15

[xxv] Esistono approcci intersezionali socialisti, come quello del Combahee River Collective

[xxvi] Nicole Constable, cit. in Freedom fallacy. The limits of liberal feminism, Australia, Connor Court Publishing Pty Ltd, pag. 35

[xxvii] Ivi

[xxviii] S. de Beauvoir, Le penseé de droit, aujourd’hui, in Les temps modernes, Parigi, 1955

[xxix] È per ragioni analoghe che anche il concetto di “resistenza”, che pure gode di gran credito presso gli ambienti della sinistra radicale, compresi quelli antispecisti, ci appare sospetto. [xxix] Come scrivono Nick Srnicek e Alex Williams, infatti: “l’idea di resistenza viene oggi celebrata amplificandone la retorica del gesto radicale, ma oscurandone la natura essenzialmente conservatrice: tutto quello che resta è resistere, mentre i progetti più concreti vengono considerati nient’altro che fantasie”. Nick Srnicek, Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Roma, Nero, 2018, pag. 73

 

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