di Nicolas Graham     Traduzione di Vittorio Savarese

La pianificazione economica, che si basa sul controllo e sulla proprietà pubblica delle imprese e dei mezzi di produzione, consente la determinazione razionale degli obiettivi stessi della produzione. Facilita un’allocazione consapevole delle risorse e delle capacità sociali verso bisogni e obiettivi socialmente definiti e il coordinamento dell’azione attraverso il processo lavorativo. Mentre la pianificazione può essere gerarchica e “dall’alto verso il basso”, la pianificazione economica democratica consente ai lavoratori e all’intera società di determinare quali linee di produzione devono essere privilegiate e come le risorse devono essere investite.1 La pianificazione democratica, che secondo Michael Löwy non è “altro che la democratizzazione radicale dell’economia”, è oggi di vitale importanza per migliorare l’uguaglianza sostanziale e per risolvere le crescenti crisi ecologiche e climatiche. 2

In questo articolo, rivedo le osservazioni di Karl Marx sulla pianificazione economica nel Capitale e sviluppo le loro implicazioni ecologiche. Sebbene le affermazioni di Marx sulla pianificazione siano scarse, l’interesse e l’attenzione che mi propongo di sottolineare è il modo in cui si avvicina alla pianificazione come caratteristica universale del lavoro umano, come capacità di deliberazione e lungimiranza; obiettivi che sono potenziati, ma anche imbrigliati alle finalità del capitale. In effetti, nella sua analisi della socializzazione della produzione, Marx coglie un nuovo potere produttivo – il potere collettivo del lavoro associato – e una capacità emergente, vale a dire la capacità di pianificare e coordinare consapevolmente tale associazione. Questi poteri e capacità sono allo stesso tempo potenziati e in parte messi in atto, ma anche distorti, ostacolati e trasformati in qualcosa di negativo, nel contesto capitalistico. Questo ostacolo riguarda l’incapacità all’interno del capitalismo di estendere significativamente la pianificazione oltre gli interessi delle singole corporazioni. Riguarda anche l’impossibilità di esprimere le potenzialità di pianificazione dei lavoratori, circoscritti nella gerarchia sul posto di lavoro. La pianificazione è quindi affrontata da Marx come un “potere addormentato”, una capacità sociale che deve ancora essere realizzata.

Allo stesso tempo, vi invito a considerare la stretta interconnessione tra l’analisi di Marx delle forme di cooperazione produttiva potenziate dal capitalismo e la sua stessa analisi di una contraddizione genetica del Capitalismo ad una evoluzione piena di tale possibilità. Mentre Marx è entusiasta del potenziale che circonda la trasformazione della produzione in un processo sociale basato sull’interscambio crescente (la socializzazione della produzione), riconosce che le forme esistenti di interconnessione, comprese le divisioni territoriali e spaziali del lavoro, sono impigliate nelle contraddizioni ecologiche del capitalismo e materializzano la diseguaglianza delle relazioni. Pertanto, mentre Marx è talvolta visto presentare una cosiddetta comprensione neutrale delle forze produttive, la sua analisi indica la necessità non solo di attivare l’uso razionale dei mix tecnologici esistenti e delle forme organizzative di produzione socializzandole, ma di trasformarle strutturalmente.3

Per sviluppare questi punti, comincio rivisitando prima le osservazioni di Marx sulla pianificazione economica nel primo volume del Capitale, considerando il modo in cui affronta la pianificazione come parte di ciò che David Harvey chiama un “potenziale di specie”, la cui realizzazione è bloccata e limitata.4 Sviluppo le implicazioni ecologiche di questa analisi, indicando l’urgente necessità, nel contesto dell’attuale emergenza climatica, di subordinare i mercati alla pianificazione di riorientare i sistemi di produzione verso il soddisfacimento sostenibile dei bisogni.

Insieme ad altra letteratura ecosocialista, considero i settori e le forze di produzione che hanno bisogno di decrescere e altri che hanno bisogno di crescere, e delineo le caratteristiche della pianificazione socialista democratica che questo richiede. Ciò si estende alle trasformazioni consapevoli nelle divisioni territoriali e spaziali del lavoro. Le riflessioni sulla riorganizzazione di quest’ultimo sono probabilmente sottosviluppate nella letteratura ecosocialista e sottolineo le tensioni, le sfide e i compromessi che le accompagnano. Suggerisco la necessità di un processo di parziale deglobalizzazione, accompagnato da una significativa (ri)localizzazione della produzione, a partire dai settori agricolo ed energetico, e dal ridimensionamento del commercio a lunga distanza e delle catene di materie prime. Tuttavia, tali trasformazioni non sono concepite come una ritirata nel locale, o come un processo di semplice uscita dall’economia globale, come implicito in alcuni approcci della sinistra verde.5 Invece, sottolineo la necessità di stabilire nuove forme di cooperazione economica ed ecologica tra località e regioni attraverso la condivisione di conoscenze, abilità e informazioni ecologiche tra comunità, regioni e stati.

Marx, la pianificazione e il modo di cooperare

Le riflessioni di Marx sulla pianificazione nel Capitale sono per lo più contenute in tre capitoli successivi (capitoli 15-17) intitolati “Cooperazione”, “Divisioni del lavoro e della manifattura” e “Macchinari e grande industria”. Questi capitoli seguono la sua analisi del passaggio dal plusvalore assoluto a quello relativo, quest’ultimo è il risultato della lotta competitiva per aumentare la produttività del lavoro, che riduce il tempo di lavoro necessario per produrre merci. Marx analizza il modo in cui i capitalisti ottengono un plusvalore relativo rivoluzionando le forze produttive, compreso l'”hardware” della produzione (macchine e tecnologia), la conoscenza e le competenze, la cooperazione e la divisione del lavoro.

Nel capitolo sulla “Cooperazione”, Marx si occupa di come il capitale cerchi di aumentare la produttività portando il lavoro artigianale in una struttura di cooperazione in un laboratorio. Definisce poi la cooperazione in termini di associazione produttiva, legandola insieme all’idea di un “piano”: “quando numerosi lavoratori lavorano fianco a fianco secondo un piano, sia nello stesso processo, sia in processi diversi ma collegati, questa forma di lavoro è chiamata cooperazione”.6 Questa è una definizione transstorica; forme di produzione cooperativa si trovano nel corso della storia, indipendentemente da qualsiasi modo di produzione. Nel fornire tale definizione, Marx riflette sull’aspetto del valore d’uso ampio della cooperazione, affermando che “non solo abbiamo un aumento del potere produttivo di un individuo, per mezzo della cooperazione, ma la creazione di un nuovo potere produttivo, che è intrinsecamente  collettivo”.7 Similmente, in uno dei suoi pochi riferimenti all'”essere specie” nel Capitale egli osserva: “Quando l’operaio coopera in modo pianificato con gli altri, si spoglia delle catene della sua individualità e sviluppa le capacità della sua specie”.8

Mentre Marx inizialmente definisce la cooperazione in modo transstorico, si occupa della sua trasformazione in relazioni sociali storicamente specifiche, e quindi esamina come la riorganizzazione del processo lavorativo da parte del capitale la rimodella per i propri scopi. Questa riorganizzazione comporta la “sussunzione reale” del lavoro al capitale mentre i capitalisti dirigono e supervisionano le attività dei lavoratori e intensificano la produzione riducendo il tempo di lavoro socialmente necessario che va in ogni unità di un prodotto. La cooperazione è presente nei precedenti modi di produzione, ma è più sistematicamente sviluppata all’interno del capitalismo, basata sulla disponibilità di lavoratori salariati “liberi” che possono essere ammassati in gran numero. Tale cooperazione aumenta la produttività del lavoro: “una dozzina di persone che lavorano insieme produrranno molto di più, nella loro giornata lavorativa collettiva di 144 ore, di dodici uomini isolati che lavorano ciascuno per 12 ore”.9 L’aumento della produttività fa parte del valore d’uso della cooperazione e, dato il contesto storico in cui stava scrivendo, Marx affronta la crescita della produzione produttiva come un obiettivo socialista.

Tuttavia, più fondamentalmente, Marx sottolinea la potenziale nobiltà della cooperazione (come capacità umana che aggiunge e aumenta i nostri poteri collettivi) in contrasto con la sua forma alienata sotto il capitalismo.10 In effetti, ciò che guida l’analisi di Marx è la sua insistenza sul fatto che la forza produttiva della cooperazione è una proprietà comune appartenente ai produttori associati e che il capitale si sta semplicemente appropriando, distorcendola e usandola a proprio vantaggio. Egli sostiene che “la forza produttiva speciale della giornata lavorativa combinata è, in ogni circostanza, la forza produttiva sociale del lavoro, o la forza produttiva del lavoro sociale. Questo potere nasce dalla cooperazione stessa”.11 È, tuttavia, afferrato dal capitale attraverso la sussunzione reale e sviluppato per la sua capacità di aumentare la produttività del lavoro alla ricerca di plusvalore (relativo). Egli scrive: “Poiché questo potere non costa nulla al capitale, mentre d’altra parte non è sviluppato dall’operaio fino a quando il suo lavoro non cessa di appartenere al capitale, esso appare come un potere che il capitale possedeva per sua natura, un potere inerente al capitale”.12 Il capitale si appropria, mistifica e trasforma in potere privato i frutti di un processo sempre più vasto e collaborativo di lavoro socializzato.

Altrove nel Capitale, Marx fa un punto simile riguardo alla conoscenza e alla scienza, che intende come poteri collettivi, l’effetto accumulato delle reti di associazione e cooperazione.13 La scienza è appropriata dal capitale come un “dono gratuito” e, nella sua applicazione produttiva, Marx suggerisce che la sua natura collettiva è spesso mistificata: “L’accumulazione della conoscenza e dell’abilità, le forze produttive generali del cervello sociale, è così assorbita nel capitale, in contrapposizione al lavoro, e quindi appare come un attributo del capitale”.14  Questa è un’intuizione importante, poiché anche quando i tipi di proprietà intellettuale sono prodotti in condizioni capitalistiche di profitto (piuttosto che essere appropriati come un “dono gratuito”), la conoscenza scientifica non è mai totalmente sussunta sotto la forma merce, ma è piuttosto una risorsa generata collettivamente e un bene che dipende da un bene comune intellettuale molto più ampio. Come la cooperazione stessa, è come un potere intrinsecamente collettivo.

Nel capitolo che segue, sulle “Divisioni del lavoro e della manifattura”, Marx si concentra sull’ulteriore riorganizzazione della produzione in quello che chiama il “sistema manifatturiero”. Questo sistema, che si basa sulla crescente concentrazione dei mezzi di produzione, accelera il processo attraverso il quale i lavoratori appartenenti a vari mestieri artigianali sono riuniti sotto un unico laboratorio. Combinare e organizzare l’attività di molti lavoratori specializzati significa che ciò che viene prodotto è il prodotto di ciò che Marx chiama un “lavoratore collettivo”.15

Come suggerisce il titolo del capitolo, egli si è preoccupato anche delle divisioni del lavoro che sono determinate e trasformate da questa riorganizzazione. Le divisioni del lavoro non sono viste da Marx come intrinsecamente negative; In effetti, le divisioni del lavoro ben organizzate, che facilitano la cooperazione sia in un singolo posto di lavoro che attraverso lo spazio, sono affrontate da lui come capacità umane che possono incrementare le capacità collettive. Egli esamina due diversi tipi di divisione. Il primo riguarda la divisione del lavoro tra i lavoratori all’interno dell’impresa o del posto di lavoro sotto il disegno pianificato del capitalista e dei suoi assistenti alla supervisione, ciò che potremmo chiamare la divisione del lavoro nell’impresa. Il secondo tipo riguarda la divisione sociale del lavoro, che riguarda tutte le diverse forme di lavoro che si svolgono in modo indipendente e gli scambi tra diverse comunità e regioni e tra imprenditori capitalisti concorrenti (nel caso del capitalismo).

La divisione del lavoro è un concetto ampio e sia sul posto di lavoro che tra le società, e ci sono numerose distinzioni sociali e culturali che modellano la sua formazione, compresa l’organizzazione del lavoro riproduttivo e sociale attraverso gerarchie di genere e razziali.16 Tuttavia, a questo punto, Marx si concentra sulle divisioni tra imprese e settori economici e più in generale sulle divisioni territoriali del lavoro. Come per la cooperazione, suggerisce (superficialmente) che esiste una divisione sociale del lavoro di qualche forma in tutti i tipi di società, e in relazione al territorio, questo include relazioni di scambio che sorgono tra diverse comunità con diversi beni, risorse e prodotti. Egli afferma che “il fondamento di ogni divisione del lavoro che ha ottenuto un certo grado di sviluppo ed è stato determinato dallo scambio di merci, è la separazione della città dalla campagna”.17 Mentre le divisioni territoriali del lavoro esistono nelle società precapitaliste, la divisione del lavoro nel sistema manifatturiero fornisce un “nuovo stimolo” alla “divisione territoriale del lavoro, che confina i rami speciali della produzione a specifici distretti di un paese” e “sfrutta tutte le peculiarità naturali”. Ciò si estende ancora più ampiamente al “sistema coloniale e al mercato mondiale”.18

Mentre si rafforzano a vicenda, Marx fa un’importante distinzione tra la divisione del lavoro nell’impresa e nella società, che egli suggerisce, differiscono non solo per grado ma per tipo. Una differenza fondamentale è che con la divisione sociale del lavoro, i mezzi di produzione non sono strettamente concentrati, ma piuttosto distribuiti tra i produttori indipendenti, e le connessioni tra loro si formano attraverso l’acquisto e la vendita di merci. Anche il modo in cui è organizzata la divisione sociale del lavoro è molto diverso. Marx sottolinea che la sua organizzazione non si basa sul controllo cosciente, ma piuttosto sul “gioco del caso e del capriccio”, che “si traduce in un modello eterogeneo di distribuzione dei produttori e dei loro mezzi di produzione tra i vari rami del lavoro sociale”.19 Mentre la divisione del lavoro nella  produzione è ampiamente pianificata, regolata e supervisionata – ed è quindi  imposta a priori dal capitale – la divisione del lavoro nella società, scrive Marx, è imposta a posteriori, attraverso la fluttuazione dei prezzi di mercato e la concorrenza.

Di conseguenza, il capitalismo è caratterizzato da “anarchia nella divisione sociale del lavoro e dispotismo nella divisione manifatturiera del lavoro”.20 Mentre i capitalisti pianificano avidamente l’organizzazione della produzione nella fabbrica, essi resistono continuamente ai tentativi di controllare e pianificare la divisione sociale del lavoro. Questa resistenza, come osserva preveggentemente Marx, è rafforzata dall’ideologia borghese che “celebra la divisione del lavoro in officina” ma “denuncia con uguale vigore ogni tentativo cosciente di controllare e regolare socialmente il processo di produzione”.21

C’è una profonda contraddizione, secondo Marx, tra la produzione socializzata e l’appropriazione privata, che lo porta a suggerire che sotto il socialismo, la pianificazione a livello sociale eliminerebbe l'”anarchia della produzione” capitalista, assicurando un’allocazione più razionale delle risorse economiche e delle capacità produttive, eliminando le crisi economiche. Ciò è espresso sinteticamente nelle riflessioni di Marx nella guerra civile in Francia, dove scrive: “Se la produzione cooperativa non deve rimanere una finzione e una trappola; se deve sostituire il sistema capitalista; se le società cooperative unite regolassero la produzione nazionale su un piano comune, prendendola così sotto il proprio controllo e ponendo fine alla costante anarchia e alle periodiche convulsioni che sono la fatalità della produzione capitalista, cos’altro, signori, sarebbe se non il comunismo, il comunismo “possibile”?22

Nel capitolo sulla divisione del lavoro, Marx indica non solo l’irrazionalità del coordinamento del mercato, ma anche il dispotismo e la coercizione che questo sistema di mercato produce sul posto di lavoro. “La produzione vera e propria non solo sottopone il lavoratore, precedentemente indipendente, alla disciplina e al comando del capitale, ma crea un’ulteriore struttura gerarchica tra i lavoratori stessi”.23 Il risultato è un “impoverimento del lavoratore nella forza produttiva individuale”, tale che “la possibilità di una direzione intelligente nella produzione si espande in una direzione, perché svanisce in molte altre”.24 Le capacità proprie dei lavoratori di amministrare la produzione sono ostacolate.

Marx scrive che la riorganizzazione della divisione del lavoro nell’impresa e nella società è il segno distintivo del periodo manifatturiero, ma, come vediamo nel capitolo su “Macchinari e grande industria”, l’emergere della grande industria nel diciannovesimo secolo, o la rivoluzione industriale, trasforma profondamente anche tali divisioni.

Come suggerisce la letteratura sul “capitalismo fossile”, la rivoluzione industriale ha comportato una transizione energetica in un doppio senso, dalla produzione effettuata dalla forza muscolare, poi dall’energia idrica, a quella alimentata da macchinari alimentati a combustibili fossili.25 Come spiega Marx, le singole imprese sono impegnate in una ricerca incessante per sostituire il lavoro vivo (manuale) con il lavoro morto (macchina), poiché quest’ultimo è una fonte chiave di plusvalore relativo. Ciò si estende alle dinamiche competitive di un’economia di mercato avanzata: sotto la “frusta della concorrenza”, l’impresa che innova guadagna una misura extra di profitto rispetto ai suoi concorrenti (vendite migliori o costi unitari inferiori), e quella che non riesce ad adottare metodi nuovi e migliori sarà cacciata dal mercato nel tempo. La velocità accelerata e la scala ampliata della produzione che risulta da questa spinta porta ad aumenti (a livello di sistema) della quantità di materia ed energia utilizzata dal processo industriale, nonché della produzione di rifiuti. Nella misura in cui il processo si basa sul consumo di combustibili fossile, ciò determina il progressivo sversamento di anidride carbonica nell’atmosfera e la crescita della sua concentrazione, interrompendo il ciclo del carbonio, causando il cambiamento climatico globale.26

La rivoluzione tecnologica genera simultaneamente un aumento della concentrazione del capitale e porta alla formazione di una divisione del lavoro ancora più complessa nell’impresa, poiché il lavoro qualificato si concentra nell’automazion e dei processi e nella organizzazione del lavoro per ottenere la massima efficienza, e il lavoro manuale consiste nella gestione delle macchine. Produce anche uno spostamento nelle divisioni territoriali e spaziali del lavoro. In effetti, Marx sottolinea che le imprese mirano non solo ad aumentare la produzione fisica dei beni, ma devono anche realizzare il valore di ciò che viene prodotto. In questo sforzo, le problematiche delle imprese riguardano sia l’incremento della produzione sostenuta che l’ampliamento delle vendite, in particolare per quanto riguarda “la disponibilità di materie prime e l’estensione dei punti vendita”.27 La risposta di Marx a come tali barriere sono temporaneamente superate è che il capitale si impegna in ulteriori espansioni geografiche e pratiche imperialiste. Facendo l’esempio dell’India, sottolinea che l’espansione del capitale rovina la produzione artigianale e trasforma le popolazioni nazionali in mercati, mentre le converte “in campi per … Coltivare materie prime per la madrepatria”.28 Il problema, come Rosa Luxemburg suggerì in seguito, è alleviato dalla continuazione dell’accumulazione primitiva attraverso imposizioni imperialiste in società non completamente assorbite nel modo di produzione capitalista.29.  La conseguenza è una crescente interdipendenza all’interno di aree geografiche sempre più grandi e la crescita di una divisione internazionale del lavoro: “Nasce una nuova divisione internazionale del lavoro, adatta alle esigenze dei principali paesi industrializzati, e converte una parte del globo in un campo di produzione prevalentemente agricolo per l’approvvigionamento dell’altra parte, che rimane un campo prevalentemente industriale”.30

Marx aveva solo intravisto l’inizio di un mercato mondiale capitalista interconnesso e della divisione internazionale del lavoro, che hanno subito profonde mutazioni dal diciannovesimo secolo. Alcuni dei cambiamenti più significativi hanno avuto luogo attraverso la globalizzazione neoliberista a partire dal 1970, che ha diffuso strategie di sviluppo guidato dalle esportazioni e liberalizzazione del commercio. Successivamente, lo scambio basato sul mercato funziona sempre più in un ambiente transfrontaliero basato su società multinazionali ed è accompagnato da un’ulteriore crescita del commercio a lunga distanza e delle catene globali di materie prime. Anche le divisioni internazionali del lavoro sono state trasformate attraverso l’ascesa della cosiddetta nuova divisione del lavoro, che ha visto alcune parti del Sud del mondo diventare centri di produzione di valore industriale, mentre le economie del Nord globale si sono sempre più concentrate sull’estrazione di rendite attraverso la finanza, il settore immobiliare e assicurativo e i regimi dei diritti di proprietà intellettuale.31  Eppure, come Marx aveva intravisto, i paesi ricchi continuano a sfruttare le economie a basso reddito come fonti sia di manodopera a basso costo che di materie prime, in modo tale che i sistemi di scambio economico internazionale sono altamente asimmetrici e basati su “scambi ecologicamente diseguali”.32

La trappola della cooperazione basata sul capitale

Le riflessioni di Marx sulle forme di cooperazione e divisione del lavoro create dal capitale sono complesse. In generale, è elogiativo del potenziale insito nelle reti espansive di produzione e interscambio umano. Sottolinea come la produzione socialmente organizzata faccia convergere ed aumentare le abilità, tecniche e forme di conoscenza produttive precedentemente disperse. Nel processo produttivo, le capacità di creare valore dei singoli lavoratori e delle produzioni frammentate possono essere sviluppate come poteri sociali collettivi e controllati socialmente in un modo che non è possibile con la produzione organizzata attorno a legami personali, familiari o esclusivamente locali. Estendendosi su aree geografiche sempre più ampie, Marx vedeva il capitalismo consentire e potenziare comunità di cooperazione sempre più grandi, più varie e più cosmopolite.

Allo stesso tempo, osserviamo una preoccupazione nella sua analisi, poiché individua nelle forme di cooperazione e divisione del lavoro generate dal capitale un legame diretto al lavoro degradato, così come allo scambio ineguale e al degrado ecologico. Infatti, nell’ultima sezione del capitolo sulle macchine e la grande industria, troviamo l’analisi più acuta di Marx nel Capitale di come il capitalismo industriale crei una frattura metabolica, concentrandosi sulla sfera dell’agricoltura.

Marx scrive che l’agricoltura capitalista industrializzata “sconvolge l’interazione metabolica tra l’uomo e la terra, cioè … ostacola il funzionamento dell’eterna condizione naturale per la fertilità duratura del suolo.”33 Come sostengono Foster, Clark e York, la teoria della spaccatura di Marx non era un’osservazione incidentale o limitata alla sfera dell’agricoltura, ma piuttosto un’estensione logica della sua analisi dell’espansione geografica dell’industria capitalista nel futuro.34 Questo criterio è stato usato per analizzare i problemi nella produzione capitalistica nella sua evoluzione di crescita della produzione, di dimensioni e di competizione geogrfica. Per quanto riguarda le contraddizioni geografiche della produzione, Marx analizza come la tendenza dell’agricoltura capitalista a rovinare la fertilità del suolo sia esacerbata e diventi “irreparabile” a causa di una separazione antagonista tra città e campagna e del commercio a lunga distanza orientato al profitto e basato sulla concorrenza di mercato. Analizza come nel processo di urbanizzazione, i minerali e le sostanze nutritive nel cibo, nelle fibre e nelle materie prime agroindustriali sono stati trasportati su lunghe distanze nelle città, mentre le risorse di scarto e i rifiuti animali non sono stati restituiti al suolo.35 Inoltre, in un  manoscritto preparato per il terzo volume del Capitale, egli analizza come il disturbo del capitale di questo metabolismo si estenda globalmente attraverso il commercio internazionale: “La proprietà su larga scala, d’altra parte, riduce la popolazione agricola a un minimo in continua decrescita e nello stesso tempo con una popolazione industriale in costante crescita riunita insieme in grandi città; In questo modo produce condizioni che provocano una frattura irreparabile nel processo interdipendente tra metabolismo sociale e metabolismo naturale prescritto dalle leggi naturali del suolo. Il risultato è uno sperpero del suolo e il commercio globale porta questa devastazione ben oltre i confini di un singolo paese (Liebig)”.36

I problemi ecologici, compresa la desertificazione dei suoli, si manifestano (spesso in modo più acuto) alla periferia del capitalismo, che si trasforma in una fonte di esportazioni sempre crescenti di agricoltura e materie prime verso i poli del capitalismo. Nel primo volume del  Capitale, Marx ha anche osservato questo processo sull‘imperialismo ecologico in relazione all’Irlanda, scrivendo che “Non si deve dimenticare che per un secolo e mezzo l’Inghilterra ha esportato indirettamente il suolo dell’Irlanda, senza nemmeno consentire ai suoi coltivatori i mezzi per sostituire i costituenti nutritivi del suolo esaurito”.37

Su questa base, Marx conclude che “la produzione capitalistica, quindi, sviluppa solo  le tecniche e le modalità di interazione del processo sociale di produzione minando contempraneamente le fonti reali della ricchezza: il suolo e il lavoratore”.38 Le tecniche di produzione (compresa l’organizzazione del posto di lavoro) sono soggette al potere sociale dominante, e il degrado ambientale è intrecciato con le modalità della ripartizione sociale (comprese le divisioni geografiche e territoriali del lavoro) generate dal capitale. Questa comprensione è alla base della necessità per i produttori associati di “governare il metabolismo umano con la natura in modo razionale, portandolo sotto il loro controllo sociale collettivo, invece di sottoporre tale interazione al cieco potere del profitto; gestendo invece l’integrazione con la natura con il minor dispendio di energia e nelle condizioni più degne e appropriate per le naturali necessità umane”.39

Note relative ad una modalità di cooperazione ecosocialista

In circostanze storiche distinte, le precedenti forme di socialismo (in particolare il socialismo sovietico del ventesimo secolo) hanno prodotto modelli di pianificazione economica che imitavano in gran parte il capitalismo in termini di produttivismo e organizzazione del lavoro. Al contrario,  l’ecosocialismo si basa sull’analisi ecologica di Marx per ripensare il socialismo come regolazione razionale delle relazioni uomo-natura da parte dei produttori associati e dell’intera società.40 Questo, come scrive Michael J. Albert, “subordina i mercati alla pianificazione democratica per riorientare i sistemi di produzione e le imprese piuttosto che alla massimizzazione del profitto verso il soddisfacimento sostenibile dei bisogni di base”.41 Recentemente, gli ecosocialisti hanno indicato le prime misure chiave di un tale riorientamento dei sistemi di produzione, suggerendo un processo dialettico di crescita e decrescita in settori chiave e forze produttive basato sulla pianificazione democratica e sulla proprietà pubblica. Descrivo alcuni di questi prima di analizzare più da vicino le trasformazioni che riguardano le divisioni territoriali e geografiche del lavoro suggerite da Marx.

Crescita pianificata e decrescita

Nel contesto dell’aggravarsi dell’emergenza climatica, la decarbonizzazione rapida e completa e la transizione energetica sono una urgente priorità. Mentre la transizione energetica è vitale, come suggeriscono Löwy, Bengi Akbulut, Sabrina Fernandes e Giorgos Kallis, altre forme di produzione, come le automobili private, i fertilizzanti, l’allevamento del bestiame e l’industria delle armi devono essere sostanzialmente ridotte, mentre le capacità e le risorse vanno spostate verso diverse linee di sviluppo, come il trasporto pubblico, l’agricoltura agroecologica e i settori della cura.42

Date le diverse capacità e responsabilità storiche per le emissioni, i paesi del Nord del mondo devono fare il lavoro massiccio in termini di decarbonizzazione e riduzione della produzione di materiale-energia. Tali riduzioni assicurano margini di sviluppo per le popolazioni del Sud del mondo, orientandosi verso un processo di “contrazione e convergenza”.43 Le recenti tendenze all’esternalizzazione che accompagnano la “nuova divisione del lavoro” aggiungono complessità a questo processo. Tuttavia, poiché questo tipo di globalizzazione esternalizza produzione che rimangono principalmente destinate ai paesi del Nord del Mondo e in particolare per il consumo delle élite, dobbiamo individuare la necessità di ridurre i flussi di energia e materie prime (e le forze produttive associate) che servono il Nord.

Per realizzare questi cambiamenti, è necessaria una pianificazione. In effetti, oggi si osserva una contraddizione fondamentale tra il valore d’uso e il valore di scambio delle energie rinnovabili: le energie rinnovabili possiedono un enorme valore per alimentare i processi vitali, ma lottano per attrarre investimenti di capitale sostenuti, poiché sono meno redditizie dei combustibili fossili.44 Inoltre, come constatano Richard York e Julius Alexander McGee, la produzione di enerigia da sorgenti rinnovabili vengono aggiunte al “mix energetico” globale in modo incrementale e in aggiunta ad un’espansione netta del consumo di combustibili fossili.45 In un prossimo futuro si dovrà provvedere con urgenza, ad emanare regolamenti relativi all’offerta di energia eletrica e delle misure di pianificazione, comprese le moratorie su nuovi progetti o espansioni, prevedendo una riduzione sistematica dei combustibili fossili, privilegiando nel contempo la produzione di energie rinnovabili.

Ci sono varie misure di pianificazione che potrebbero essere emanate da governi e stati nell’ottica di aumentano il controllo pubblico sulla produzione di energia, come moratorie, mandati e limiti, unitamente a provvedimenti di agevolazione e/o di tassazione. Tuttavia, un controllo efficace richiede in ultima analisi la proprietà sociale delle imprese chiave. Questo può assumere forme diverse – attraverso la prorietà dello stato, affidando la gestione ai lavoratori, oppure ad organizzazioni espressione delle comunità sociali o a loro cooperative – che in modi diversi sfidano la spinta verso la crescita e il profitto privato. In termini di proprietà statale, molti errori sono stati commessi nelle tradizionali società del settore pubblico, che spesso funzionano in modo molto simile alle società private.46 È quindi essenziale dotare tali istituzioni di solidi mandati sociali ed ecologici, democratizzandone al contempo la governance.47 Nel caso delle imprese pubbliche di energia rinnovabile, ad esempio, un mandato di interesse pubblico potrebbe indurrebbe i consumatori a limitare il consumo di energia, riducendo la domanda e promuovendo la conservazione, limitando nel contempo l’espansione della produzione. Tali strategie sono incompatibili con l’imperativo della crescita e del profitto del settore privato e lo sostituiscono con la ricerca di valore sociale ed ecologico.

Mentre la democratizzazione della governance delle imprese di proprietà pubblica può migliorare il controllo dei lavoratori, i comitati di Gestione Produttiva dei lavoratori e i collettivi di lavoratori sono fondamentali per l’obiettivo di ridurre progressivamente la gestione capitalista, sviluppando e liberando la pianificazione dei lavoratori e altre capacità. Ciò include l’introduzione dell’istruzione sul posto di lavoro, dando il tempo di partecipare regolarmente durante l’orario di lavoro alla pianificazione della produzione e alla risoluzione dei problemi.48

Mentre la proprietà pubblica è una condizione necessaria per ottenere il controllo sociale sull’attività economica, non è una condizione sufficiente. Come suggeriva Marx, superare l’anarchia della produzione capitalista e del processo decisionale atomistico significa che le imprese di proprietà pubblica e gestite democraticamente devono essere affiancate (o possibilmente sostituire la governance) dal coordinamento e dalla pianificazione della produzione tra le imprese, e ancora più in generale attraverso il coordinamento delle divisioni interconnesse del lavoro nella società. Qui, la relazione precisa tra mercato e piano è oggetto di un intenso dibattito e sono stati sviluppati numerosi modelli, che spesso mescolano pianificazione e mercati (lasciando spazio ad alcuni mercati o scambi di mercato), ponendo vincoli alle tendenze corrosive di quest’ultimo.49 La combinazione di mercato e pianificazione si estende a questioni di scala: la pianificazione si concentrerebbe su decisioni economiche su larga scala e su imprese produttive più grandi, non su quelle su piccola scala che forniscono servizi locali.

A volte alla democratizzazione si contrappone la “centralizzazione”. Tuttavia, è abbastanza difficile immaginare una pianificazione efficace, soprattutto nei tempi necessari per agire rispetto ai cambiamenti climatici, senza un’autorità di coordinamento e un arbitro esterno. Di conseguenza, è forse meglio considerare le possibilità di una pianificazione centrale controllata democraticamente. Tale modello, come proposto da Sam Gindin, manterrebbe un ruolo chiave per un comitato e un meccanismo di pianificazione centrali, mentre le priorità generali sarebbero stabilite attraverso processi democratici e sarebbero introdotte contromisure istituzionali per frenare il potere concentrato degli organi centrali di pianificazione e dei pianificatori centrali.50

Come Marx ci incoraggia a pensarci, la pianificazione coordina e aumenta i poteri collettivi dei produttori associati, e questo include la condivisione attiva di conoscenze, informazioni e innovazione. Di conseguenza, in un sistema di pianificazione economica democratica, la condivisione delle informazioni sarebbe istituzionalizzata all’interno delle imprese e tra luoghi di lavoro e settori per soddisfare le esigenze e promuovere un obiettivo comune (come l’espansione completa delle energie rinnovabili). Ciò contrasta con un sistema di proprietà privata e di massimizzazione del profitto in cui, come osserva Gindin, “l’informazione è un bene competitivo nascosto agli altri”.51

Tali trasformazioni potrebbero iniziare a livello nazionale, attraverso la costruzione di piani nazionali. È chiaro, tuttavia, che non vi è alcuna possibilità di risolvere i cambiamenti climatici e le crisi ecologiche interconnesse all’interno di un paese (o di un gruppo limitato di paesi), il che significa che è necessario rafforzare il coordinamento e la cooperazione internazionali o multilaterali. Gli ecosocialisti sottolineano quindi la necessità di una pianificazione significativa su scala globale che regoli un tale processo di conversione produttiva e ridimensionamento – anche trasformando le istituzioni multilaterali e l’architettura – facilitando al contempo la redistribuzione, gli aiuti e il trasferimento di tecnologia verso il Sud del mondo.52

Divisioni geografiche del lavoro e cooperazione globale

Accanto alla questione di cosa (e quanto) dovrebbe essere prodotto e legato a un focus sul coordinamento internazionale e globale, l’analisi di Marx indica la necessità di trasformare consapevolmente le divisioni territoriali e geogrfiche del lavoro. Una prospettiva ecosocialista su tale trasformazione, suggerisco, è di nuovo probabile che incoraggi un processo di crescita e decrescita, con alcune forme di associazione produttiva e di interscambio che diminuiscono moderatamente, mentre altre si espandono.

Mentre Marx mostra spesso entusiasmo per le potenzialità di forme avanzate di cooperazione umana rese possibili dalla globalizzazione della produzione, già nel diciannovesimo secolo, ha osservato una separazione antagonista tra città e campagna e ha suggerito che le catene di produzione erano sovraccariche e sprecavano risorse. Oggi, ridurre la separazione geografica tra produzione e consumo deve essere una caratteristica esplicita e un obiettivo di una transizione sostenibile e giusta e, in questo contesto, gli appelli alla sinistra per una parziale deglobalizzazione, compreso l’accorciamento delle catene di merci, hanno un merito e sono abbastanza coerenti con l’analisi di Marx.53 In un processo di parziale deglobalizzazione, la produzione per i bisogni locali e interni, piuttosto che la produzione per l’esportazione, diventerebbe di nuovo il centro di gravità dell’economia. Un allontanamento dall’orientamento all’esportazione delle società nazionali e un processo di rinazionalizzazione potrebbero anche consentire alle imprese di iniziare a sviluppare le proprie strategie, allontanandosi dai capricci del mercato globale e dalle scelte prese dai comitati di Controllo delle aziende.54

Tale trasformazione potrebbe consentire spazi per lo sviluppo indipendente nel Sud del mondo. Per fare ciò, potrebbero concentrarsi sullo spostamento dei sistemi agrari, orientando la loro produzione dall’agro-esportazione (che è una fonte di tremenda irrazionalità ecologica e scambio disuguale) verso la sovranità alimentare.55 Tali cambiamenti dovrebbero essere accompagnati da cambiamenti simultanei e coordinati verso una maggiore produzione alimentare locale e nazionale nel Nord del mondo, insieme a un passaggio dall’agricoltura ad alto input all’agroecologia e, nei contesti coloniali di insediamento, a una maggiore sovranità indigena.56 All’interno degli spazi o delle regioni nazionali, occorre cercare contemporaneamente di ricucire una frattura tra la città e la campagna. Per un modello della città ambientalista, si potrebbe guardare all’Avana per l’ispirazione. Durante il Periodo Speciale di Cuba nel 1990, l’agricoltura biologica e a basso input è stata sviluppata sia nelle campagne, sia nella capitale dell’isola attraverso fattorie urbane. L’agricoltura urbana non è qui di nicchia o su piccola scala: copre grandi distese all’interno e alla periferia della città, dove si trova una ricca terra.57 Nel passaggio alle energie rinnovabili, anche la produzione di energia dovrebbe essere delocalizzata il più possibile. Questa è una potenzialità inerente al “flusso” di energia rinnovabile, in contrasto con lo “stock” energetico concentrato o i combustibili fossili.

Mentre la riduzione della separazione territoriale tra produzione e consumo fa parte dello sviluppo di una produzione ecologicamente razionale, questo obiettivo dovrebbe essere riconosciuto come tendenziale per la pianificazione economica (almeno a lungo termine), nella misura in cui la pianificazione espansiva è potenziata dalla socializzazione della produzione. Pertanto, le esigenze di localizzazione della produzione implicano una diminuzione dell’associazione produttiva tra imprese e regioni e la possibilità di pianificare tali interconnessioni.

In pratica, è importante riconoscere che un tale processo si confronta con le interdipendenze materiali, poiché le reti produttive esistenti e le configurazioni infrastrutturali supportano e sostengono enormi settori della vita umana. Diverse regioni e città hanno anche diverse specializzazioni e diverse capacità ecologiche. In un mondo esistente di interdipendenze economiche evolute, i bisogni riproduttivi di varie comunità richiedono continui flussi di risorse globali. Il cambiamento climatico crea anche gravi sfide di sopravvivenza e sostentamento su base altamente disomogenea, e il commercio globale e le divisioni del lavoro possono fungere da salvaguardie contro problemi come le pandemie legate alle carenze di approvvigionamento idrico e alla riduzione dei rendimenti agricoli. Più in generale, dovremmo considerare attentamente il suggerimento di Marx che le divisioni territoriali del lavoro ben organizzate sono poteri collettivi e possono essere parte della collaborazione negli affari umani. Ciò si estende alla specializzazione territoriale, che, organizzata consapevolmente, potrebbe comportare una ripartizione collaborativa delle risorse e delle capacità.58

Una ri-centratura dell’attività sull’economia locale e domestica dovrebbe quindi procedere attraverso un’associazione di luoghi collegati ed essere sostenuta da nuove forme di coordinamento e cooperazione internazionale. Concepita in questo modo, la deglobalizzazione, secondo Walden Bello, significa la trasformazione pianificata di un’economia globale da un’economia integrata intorno ai bisogni delle multinazionali a una integrata intorno ai bisogni dei popoli, delle nazioni e delle comunità.59

Nuove forme di cooperazione internazionale e nuove istituzioni (potenziate e trasformate) per coordinare e pianificare tali associazioni sono necessarie non solo per promuovere l’uguaglianza sostanziale e lo sviluppo umano, ma anche per la regolamentazione, la gestione e la mitigazione dei problemi ecometabolici globali. I sostenitori del capitalismo climatico ora immaginano la decarbonizzazione come una gara tra diversi stati e società per un posizionamento vantaggioso rispetto al  mutevole panorama delle tecnologie pulite e al mercato globale dell’energia.60 Tale processo ostacola il coordinamento e la cooperazione tanto necessari, compresa la diffusione di conoscenze, informazioni e tecnologie fondamentali per guidare una trasformazione verde. La massima condivisione reciproca della conoscenza, non ostacolata dal motivo del profitto, è vitale per la risoluzione dei problemi ecometabolici (e di altri problemi su scala globale, comprese le pandemie sanitarie).61

Il diritto ai benefici del “cervello sociale e della mano sociale” può essere visto nei movimenti di trasferimento della tecnologia e della conoscenza. Ciò include un focus sulle tecnologie di energia rinnovabile. Come osserva Kolya Abramsky, il trasferimento tecnologico ha echi dell’ideologia della modernizzazione, ma assume un significato e una dinamica molto diversi quando si basa su un processo non commerciale.62 Un tale movimento globale fa parte della difesa del controllo e della proprietà comune della conoscenza e della sua dedicazione all’uso comune.

La necessità di “trasferire” tecnologia e conoscenza da Nord a Sud deriva dalla concentrazione delle capacità di ricerca e sviluppo e dai regimi di diritti di proprietà che accompagnano le attuali divisioni internazionali del lavoro. Ma la condivisione di conoscenze, tecniche e razionalità ecologica deve anche essere Sud-Nord, Sud-Sud, e dal “quarto mondo” al “primo”, poiché le pratiche e le tecniche degli agricoltori di sussistenza nel Sud del mondo e degli amministratori indigeni in tutto il mondo sono, come suggerisce Ariel Salleh, “rift healing (soluzione della spaccatura)” e possiedono “valore metabolico”, con un ruolo importante da svolgere nel sostenere l’integrità ecologica.63

Nonostante l’ideologia borghese e neoliberista, la pianificazione è sia una necessità urgente che una potenzialità liberatoria. Attualizza e consente alle capacità e ai poteri collettivi dei produttori associati e dell’intera società di regolare le relazioni uomo-natura in linea con i loro bisogni e quelli delle generazioni future.

Note

  1. Michael Löwy, “Eco-Socialism and Democratic Planning,” in Coming to Terms with Nature: Socialist Register 2007, a cura di Leo Panitch e Colin Leys (New York: Monthly Review Press, 2007), 294–309.
  2. Löwy, “Ecosocialismo e pianificazione democratica”, 298.
  3. Vedi anche Nicolas Graham, Forces of Production: Climate Change and Canadian Fossil Capitalism, New Scholarship in Political Economy (Leiden: Brill, 2021).
  4. David Harvey, “On Architects, Bees, and ‘Species Being,'” in Spaces of Hope (Berkeley: University of California Press, 2000), 199–212.
  5. Vedi Greg Albo, “The Limits of Eco-Localism”,  in Venire a patti con la natura, eds. Panitch e Leys, 337-63, per una critica tagliente degli approcci di ecologia sociale bioregionale e anarchica che sostengono una maggiore localizzazione della produzione, ma in gran parte separano questo processo dalla trasformazione dei rapporti di produzione. Una tendenza simile si trova nella recente borsa di studio sulla decrescita che si oppone alla tecnologia su larga scala; vedi Paul Robbins, “Is Less More… o è più meno? Scaling the Political Ecologies of the Future”, Geografia politica 76 (gennaio 2020). La successiva difesa delle iniziative su piccola scala e delle comunità autosufficienti preclude praticamente la pianificazione economica (almeno a lungo termine), nella misura in cui la pianificazione espansiva è potenziata dalla socializzazione della produzione.
  6. Karl Marx, Capital, vol.1 (New York: Vintage, 1976), 443.
  7. Marx, Il Capitale, vol. 1, 443, enfasi aggiunta.
  8. Marx, Il Capitale, vol. 1, 447.
  9. Marx, Il Capitale, vol. 1, 444.
  10. Vedi anche David Harvey, A Companion to Marx’s Capital (Londra: Verso, 2010), 171–76.
  11. Marx, Il Capitale, vol. 1, 447.
  12. Marx, Il Capitale, vol. 1, 451, enfasi aggiunta.
  13. Per un resoconto esemplare, vedi Paul Burkett, Marx and Nature: A Red and Green Perspective (Haymarket, 2014), 70–78.
  14. Karl Marx, Capital, vol. 3 (New York: Penguin, 1993), 694, enfasi aggiunta.
  15. Marx, Il Capitale, vol. 1, 468.
  16. Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, Feminism for the 99%: A Manifesto (Londra: Verso, 2019); Michael C. Dawson, “Hidden in Plain Sight: A Note on Legitimation Crises and the Racial Order”, Critical Historical Studies 3, n. 1 (marzo 2016): 143–61.
  17. Marx, Il Capitale, vol. 1, 472.
  18. Marx, Il Capitale, vol. 1, 474, 50.
  19. Marx, Il Capitale, vol. 1, 476.
  20. Marx, Il Capitale, vol. 1, 477.
  21. Marx, Il Capitale, vol. 1, 477.
  22. Karl Marx, Collected Works of Marx and Engels, 22  (New York: International Publishers, 1975), 22.
  23. Marx, Il Capitale, vol. 1, 481.
  24. Marx, Il Capitale, vol. 1, 482.
  25. Matthew Huber, “Energizing Historical Materialism: Fossil Fuels, Space and the Capitalist Mode of Production”, Geoforum 40, n. 1 (gennaio 2009): 105–15; Andreas Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming (Londra: Verso, 2016), 37–47.
  26. Brett Clark e Richard York, “Carbon Metabolism: Global Capitalism, Climate Change, and the Biospheric Rift,” Theory and Society 34, n. 4 (agosto 2005): 391–428.
  27. Marx, Il Capitale, vol. 1, 579.
  28. Marx, Il Capitale, vol. 1, 579.
  29. Rosa Luxemburg, The Accumulation of Capital, (Mansfield Center, Connecticut: Martino Fine Books, 2015).
  30. Marx, Capitale, vol. 1, 579-80.
  31. David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Oxford: Oxford University Press, 2014).
  32. Alf Hornborg, “Uneven Development as a Result of the Unequal Exchange of Time and Space: Some Conceptual Issues”, Journal für Entwicklungspolitik 26  , n. 4 (gennaio 2010): 36–52.
  33. Marx, Il Capitale, vol. 1, 637.
  34. John Bellamy Foster, Brett Clark e Richard  York, The Ecological Rift: Capitalism’s War on the Earth (New York: Monthly Review Press, 2010).
  35. Marx, Il Capitale, vol. 1, 637.
  36. Citato in Kohei Saito, Karl Marx’s Ecosocialism: Capital, Nature, and the Unfinished Critique of Political Economy (New York: Monthly Review Press, 2017), 205-6.
  37. John Bellamy Foster e Brett Clark, “Ecological Imperialism: The Curse of Capitalism” in The  New Imperial Challenge: Socialist Register 2004, a cura di Leo Panitch e Colin Leys (New York: Monthly Review Press, 2004), 186–201; Marx, Il Capitale, vol. 1, 860.
  38. Marx, Il Capitale, vol. 1, 638, enfasi aggiunta.
  39. Marx, Il Capitale, vol. 3, 958-59.
  40. Foster, Clark e York, The Ecological Rift, 401–22.
  41. Michael J. Albert, “Capitalismo e governance del sistema terrestre: un approccio marxista ecologico“, Global Environmental Politics 20  , n. 2 (2020): 47.
  42. Michael Löwy, Bengi Akbulut, Sabrina Fernandes e Giorgos Kallis, “Per una decrescita ecosocialista“, Monthly Review 73, n. 11 (aprile 2022): 56–58.
  43. Daniel Tanuro, Green Capitalism: Why It Can’t Work (Halifax: Fernwood, 2014).
  44. Malm, capitale fossile, 367–73; Brett Christophers, “Fossilised Capital: Price and Profit in the Energy Transition”, New Political Economy 27, no.1 (2022), 146–59.
  45. Richard York e Julius Alexander McGee, “Does Renewable Energy Development Depair Economic Growth from CO2 Emissions?”, Socius  3 (gennaio 2017).
  46. William K. Carroll e J. P. Sapinski, Organizing the 1%: How Corporate Power Works (Halifax: Fernwood, 2018).
  47. Carroll e Sapinski, organizzando l’1%.
  48. Vedi Michael Lebowitz, Build It Now: Socialism for the Twenty-First Century (New York  : New York University Press, 2006); Sam Gindin, “Socialismo per realisti“, Catalyst 2, n. 3 (2018).
  49. Pat Devine, “Democratic Socialist Planning”, in The Oxford Handbook of Karl Marx, a cura di Matt Vidal et al. (Oxford: Oxford University Press, 2019), 773-92; Gindin, “Socialismo per realisti”.
  50. Gindin, “Socialismo per realisti”.
  51. Gindin, “Socialismo per realisti”.
  52. Albert, “Capitalismo e governance del sistema terrestre”; Ian Angus, Facing the Anthropocene: Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System (New York: Monthly Review Press, 2016).
  53. Walden Bello, Capitalism’s Last Stand?: Deglobalization in the Age of Austerity (Londra: Zed Books, 2013); Mario Candeias, “Green Transformation: Competing Strategic Projects”, Rosa Luxemburg Stiftung, 2013, 1-26; Tanuro, Capitalismo verde.
  54. Candeias, “Green Transformation: Competing Strategic Projects”.
  55. Max Ajl, “A People’s Green New Deal: Obstacles and Prospects”, Agrarian South: Journal of Political Economy 10, n. 2 (agosto 2021): 371-90.
  56. Annette Aurélie Desmarais e Hannah Wittman, “Farmers, Foodies and First Nations: Getting to Food Sovereignty in Canada”, Journal of Peasant Studies 41, n. 6 (novembre 2014): 1153-73.
  57. Sinan Koont, “L’agricoltura urbana dell’Avana“, Monthly Review 60, n. 8 (gennaio 2009): 44–63.
  58. Vedi anche Harvey, “On Architects, Bees, and ‘Species Being'”.
  59. Bello, l’ultima resistenza del capitalismo?.
  60. Nicolas Graham e William K. Carroll, “Climate Breakdown: From Fossil Capitalism to Climate Capitalism (And Beyond?),” in  Capital and Politics: Socialist Register 2023, eds. Greg Albo, Nicole Aschoff, and Alfredo Saad-Filho (New York: Monthly Review Press, 2022), 25–46.
  61. Per un’analisi dell'”apartheid dei vaccini” che ha seguito il rifiuto di rinunciare alla proprietà intellettuale di Big Pharma sui vaccini COVID-19 e quindi considerare i farmaci di vitale importanza come beni pubblici globali, vedi Patrick Bond, “Multilateralism at a Crossroads: Vaccine Apartheid, Climate Wars, Geopolitical Turmoil”, in Capital and Politics, 64-89.
  62. Kolya Abramsky, “Sparking an Energy Revolution:  Building New Relations of Production, Exchange and Livelihood,” in Sparking  a Worldwide Energy Revolution: Social Struggles in the Transition to a Post-Petrol World, ed. Kolya Abramsky (Oakland, California: AK Press, 2010), 609–28.
  63. Ariel Salleh, “From Metabolic Rift to ‘Metabolic Value’: Reflections on Environmental Sociology and the Alternative Globalization Movement,” Organization & Environment 23, n. 2 (giugno 2010): 205–19.

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