Traduzione dell’intervista a Dario Manni da parte di Hassan K., del canale Telegram iraniano https://t.me/weanimals . Titolo originale: “Socialism and the Challenge of Animal liberation” Socialism and the Animal Liberation Challenge: A Question and Answer with Christine Stoch, Marco Maurizi and Dario Mani – A Critique of Political Economy (pecritique.com)

WE ANIMALS

Ciao compagno Dario,
abbiamo già discusso con Marco Maurizi dall’Italia e Christian Stache dalla Germania sulla liberazione animale e il socialismo. Ci piacerebbe conversare anche con te.
La questione del ruolo degli animali nella società e delle relazioni uomo-animale è stata esaminata da diverse prospettive. Per quanto ne sappiamo, il tuo punto di vista su questo tema si basa sulla concezione marxista delle relazioni economico-sociali e sulla contestualizzazione dello sfruttamento degli animali in queste relazioni. In base a questo punto di vista, tu consideri l’abolizione delle relazioni capitalistiche come l’obiettivo fondamentale e l’elemento determinante per la liberazione degli animali. D’altra parte, vediamo che la sinistra e i marxisti nel loro complesso non hanno un punto di vista e un’analisi chiari su questo tema.
Per chiarire il quadro e la natura della nostra domanda, ti proponiamo di riflettere su una situazione ipotetica: mettiamo che oggi in tutto il mondo si sia verificata una rivoluzione socialista. Il potere politico della borghesia è crollato e ovunque i consigli rappresentativi dei lavoratori hanno preso il controllo degli affari. Tutte le imprese economiche sono nelle mani di questi consigli e si può dire che il processo di disintegrazione dei rapporti capitalistici sia iniziato. I mattatoi sono uno di questi centri di produzione sotto il controllo dei lavoratori rivoluzionari.
E ora il punto centrale della nostra domanda: cosa succede agli animali in questo scenario?
È chiaro che la mentalità e il pensiero dei leader della trasformazione sociale non siano improvvisamente cambiati. Coloro che erano sordi, ciechi e muti di fronte alla questione degli animali sono ora i leader della rivoluzione compiuta. Quale sarà l’agenda degli attivisti e dei socialisti che credono nella liberazione degli animali? Certamente, non c’è nessuna novità dei rapporti capitalistici (in quanto rapporti dominanti) per rimandare l’emancipazione fino alla sua abolizione, né sarebbe accettabile l’esistenza di un “mattatoio socialista al servizio delle masse”.
Compagno Dario, a partire da questo scenario, su quale base e tramite quali analisi i leader della rivoluzione e le masse popolari dovrebbero accettare la necessità di liberare gli animali? Sulla base di Singer-Regan-Francione? Non significa forse che ricondurre la questione degli animali alle relazioni economico-sociali e, di fatto, al ruolo del capitalismo, in qualche modo ci disarma e depotenzia? Non significa forse che il destino della questione animale dipende, in ultima analisi, dalla determinazione di un dovere morale nei confronti della società e, naturalmente, dei suoi leader rivoluzionari?

 

DARIO MANNI

Ciao compagni, grazie per il vostro gradito invito.

Il vostro esperimento mentale è stimolante e, qui di seguito, proverò a immaginare il suo possibile esito. Per farlo partirò da una cosa che mi è accaduta proprio oggi, poco prima che formulassi questa risposta. In radio è passata la pubblicità di una famosa catena di fast-food e dei suoi economici hamburger a base di carne, provenienti – così diceva la pubblicità – da allevamenti ambientalmente sostenibili, gestiti con i più avanzati standard di benessere animale. Greenwashing, ovviamente, e “animal-welfarewashing”, o qualcosa del genere: non so se esista un termine altrettanto efficace di “greenwashing”, e diffuso come quello, per descrivere la mistificazione dell’industria dello sfruttamento animale sulle condizioni degli animali sfruttati. Se non esistesse, bisognerebbe proprio inventarlo. Temo però che per le migliaia di persone che hanno ascoltato quella pubblicità oltre a me, la sua falsità non sia affatto ovvia. Se consideriamo ciò che avviene in generale a livello mediatico, dobbiamo moltiplicare per molte volte l’effetto distorsivo dell’“animal-welfarewashing”. L’associazionismo zootecnico tutela ferocemente – e con l’efficacia data dalle sue molte risorse, anche economiche – i suoi interessi. Esso conduce una potente azione di lobbying nei confronti dei grandi media per contrastare inchieste televisive “animaliste” (o genericamente critiche sul tema), anche rendendone difficile la messa in onda. Il risultato è che la cittadinanza non è abbastanza informata sulle conseguenze dello sfruttamento animale, e continua a supportarlo largamente – anche se c’è un trend contrario, per quanto minoritario, nelle nuove generazioni. Per non parlare del lobbismo dell’associazionismo zootecnico verso i politici. L’attuale governo italiano, un governo di destra, è notoriamente amico di cacciatori e allevatori, che sono un suo importante bacino di voti. Benché sia fra i più inquinanti, l’Unione europea spende miliardi in sovvenzioni e contributi diretti e indiretti al comparto zootecnico. Nello sclerotizzato parlamentarismo europeo, su quei soldi i contribuenti non hanno quasi nessuna voce in capitolo. In pratica, anche una persona vegana supporta la zootecnia, per quanto indirettamente.

Cosa accadrebbe nella società liberata del socialismo realizzato o in quella, quasi utopica, del comunismo vero e proprio? Cosa accadrebbe, mi chiedete, nei consigli operai e nei consigli dei rappresentanti degli operai? Per prima cosa, direi che non avremmo più pubblicità ingannevoli né lobbying spregiudicato, dal momento che queste cose sono espressioni di interessi privati. Ciò significa che potremmo finalmente iniziare a pensare con la nostra testa, liberi dai condizionamenti, dai bisogni falsi e indotti dai nemici di classe a scopo di profitto. E cosa penseremmo degli altri animali? Gestiremmo i nostri “mattatoi del popolo” come i nemici di classe gestiscono i loro mattatoi privati? In un primo momento – e bisogna dire questo momento potrebbe essere piuttosto lungo – sicuramente sì. E non solo perché, in molte parti del mondo, lo sfruttamento degli altri animali a fini alimentari (e lo sfruttamento animale in generale) è tuttora essenziale per la sopravvivenza e la prosperità delle popolazioni locali; ma anche perché l’indurimento morale è la legge della società borghese, e l’indifferenza, e l’egoismo. Ed è la legge di molte società pre-capitalistiche che sopravvivono in una forma o nell’altra in giro per il mondo, non completamente trasformate dal modo di produzione capitalistico. Sicuramente è la legge della miseria, della povertà, del bisogno. Se non socializzassimo solo la miseria – pericolo da cui metteva in guardia già Marx – cioè se ci assicurassimo uno sviluppo sufficiente delle forze produttive, supereremmo però anche la legge della miseria, della povertà e del bisogno, oltre alla legge borghese. Come tutti gli schiavi appena liberati, porteremmo a lungo i segni delle nostre catene, forse per sempre. Se sarebbe così oppure no dipenderebbe anche da noi antispecisti, che nei consigli e nella società dei lavoratori avremmo finalmente l’opportunità di farci ascoltare; e troveremmo finalmente terreno fertile per la nostra semina, che oggi invece va in gran parte sprecata. Come marxisti non dobbiamo mai dimenticare l’importanza dei fattori strutturali sui quali si innestano (e poi retroagiscono) i fattori sovrastrutturali. Possiamo spenderci completamente per informare e sensibilizzare sullo sfruttamento animale, ma finché non ci saranno le condizioni oggettive di riuscita della nostra opera – e attualmente non ci sono – staremmo utilizzando male le nostre limitate risorse; ne ho scritto qui, per esempio. Concordo con voi: l’enorme questione animale dipende, in ultima analisi, dalla diffusione sociale dell’urgenza morale della liberazione degli animali. Ma nella nostra società specista non è abbastanza sentita nemmeno l’esigenza della liberazione degli animali umani, che in teoria sono privilegiati rispetto ai non umani, dalla condizione di sfruttamento in cui sono gettati. Pensare che, in una società siffatta, possiamo rendere abbastanza sentita l’esigenza della liberazione dei non umani è utopico; a meno di non modificare le condizioni materiali che alimentano questa insensibilità. La possibilità di un’umanità più morale sta, in ultima analisi, nella realizzazione di un’umanità socialista.

Questo ci porta alla domanda che mi fate circa come dovremmo agire oggi noi socialisti e noi antispecisti. Sarò molto diretto: penso che dovremmo uccidere l’antispecismo così come lo conosciamo, cioè come una fra le tante lotte single-issue che non esprimono un progetto di trasformazione globale dell’esistente ma che cercano al massimo “intersezioni” (nel senso di collegamenti) con altre lotte. Non è solo un problema dell’antispecismo. Le lotte single-issue, che non sono quasi mai marxiste, sono costitutivamente incapaci di raggiungere i loro obiettivi perché, ignorando come funzioni la società, cercano di cambiarla senza criterio, o seguendo criteri sbagliati. Molti antispecisti oggi hanno capito che la liberazione animale è intrecciata a quella umana e, volenti o nolenti, cercando di tenere insieme l’una e l’altra. Quello che non hanno ancora capito è che la liberazione animale e quella umana sono intrecciate in modo peculiare. La matassa può dipanarsi solo trovando il capo del filo e procedendo con una certa sequela di movimenti, di passaggi; e non indifferentemente in un modo o nell’altro, iniziando da una parte o dall’altra, con una serie di movimenti o con un’altra. Not everything goes. Né si tratta di camminare sulle braccia, per dirla con Marx, e individuare il capo della matassa di volta in volta nel “dominio”, nel “pensiero binario” o in qualche caratteristica, per esempio l’egoismo, creduta connaturata alla nostra psiche e immutabile. Le idee dominanti sono l’espressione dei rapporti materiali dominanti.

Il compito più urgente che io vedo per il movimento è dunque un ripensamento teorico radicale che riconosca la rivoluzione socialista come propedeutica alla rivoluzione animale. Con l’espressione “uccidere l’antispecismo” intendo questo. A livello pratico occorre confluire nei movimenti, nei sindacati e nei partiti socialisti, eco-socialisti, marxisti, e operare strategicamente per la collettivizzazione dei mezzi produttivi e distributivi affinché si renda possibile l’autodeterminazione su scala sociale. Finché non faremo questo, saremo determinati dal capitale come il vegano che finanzia gli allevamenti anche se acquista solo vegan e cruelty-free. Che la sinistra e i marxisti siano ancora indietro rispetto alla liberazione animale è un dato di fatto difficilmente negabile, e non ho nessuna intenzione di negarlo perché non contraddice la necessità della rivoluzione socialista per la liberazione animale. Però non dobbiamo sottovalutare i passi in avanti compiuti verso la liberazione animale dalle forze di sinistra e marxiste. Sono testimone diretto di alcuni di essi, che ho propiziato. Sono già due anni, per esempio, che il “Partito della Rifondazione Comunista”, attualmente membro fondatore della coalizione “Unione Popolare” e che è rappresentato nel Parlamento europeo dal gruppo European United Left/Nordic Green Left, ha aderito al Plant Based Treaty su invito mio e di un’organizzazione antispecista di cui facevo parte. Si tratta di un trattato internazionale promosso da alcune organizzazioni animaliste e antispeciste per la transizione verso sistemi di produzione alimentare a base vegetale. Dopo di allora, sono stato personalmente invitato a parlare del trattato e della questione animale in occasione di alcuni congressi del Partito della Rifondazione Comunista e di Unione Popolare. Ho contribuito alla stesura del programma elettorale di quest’ultima in occasione delle recenti elezioni politiche italiane, che si sono svolte l’anno scorso. In quell’occasione, le maggiori associazioni animaliste e antispeciste italiane hanno sottoposto il loro programma animalista, “Anche gli animali votano”, a tutte le forze partitiche candidate alle elezioni, chiedendo loro di aderirvi e di impegnarsi su di esso con l’elettorato. Non solo il programma di Unione Popolare è risultato fra i più avanzati dal punto di vista dei diritti e della liberazione animale; ma anche quelli delle altre forze di sinistra. Centro e destra erano invece molto più indietro. Sfortunatamente, questo forte avvicinamento della sinistra italiana all’animalismo e all’antispecismo non ha spinto l’associazionismo verso la sinistra. Mi sembra invece che le stesse associazioni promotrici di “Anche gli animali votano” non abbiano dato il giusto risalto allo sbilanciamento a sinistra dell’animalismo italiano nei partiti politici, forse anche perché “Anche gli animali votano” metteva insieme associazioni molto diverse fra loro per orientamento politico implicito o esplicito: fare un endorsement alla sinistra avrebbe causato non pochi imbarazzi a quelle più a destra fra loro. Ho espresso qualche considerazione a riguardo in questo articolo. Se la sinistra e i marxisti devono compiere altri passi avanti verso l’antispecismo, quindi (il che è sicuramente vero), mi sembra insomma che gli animalisti e gli antispecisti debbano compierne molti di più verso la sinistra e il marxismo.

Sono ben consapevole dell’urgenza, della spinta interiore ad agire per ottenere risultati “tangibili” sentita dall’attivista per la liberazione animale. Liberare un animale, si dice, non cambia il mondo; ma cambia il mondo dell’animale che è stato liberato. È vero. Ma non si tratta di rinunciare ad aiutare, di farsi ciechi e sordi nei confronti delle grida di disperazione, di dolore e delle richieste di aiuto che ci provengono nelle lingue degli altri animali. Occorre però trovare un compromesso fra teoria e azione/attivismo. Occorre trasformare le nostre azioni in prassi. Abbandonare il terreno della lotta single-issue e dar forza a progetti politici di trasformazione sociale più complessivi, più globali, non esclude a priori di condurre, nel frattempo, azioni più o meno estemporanee come liberazioni di animali non umani, né di impegnarsi nei rifugi di animali liberi o in interventi legislativi specifici; ma media le esigenze del presente, che finiscono quasi sempre per tiranneggiare su tutte le altre, con quelle del futuro. Della futura animalità socialista, la cui realizzazione viene sempre sacrificata sull’altare del qui e ora. Quale debba essere questa mediazione non è pre-determinabile, e dipende da molti fattori, che varrebbe la pena approfondire. Ma ho detto già molto e per ora mi fermo qui.

WE ANIMALS

Ammettiamo di non aver chiarito abbastanza la nostra domanda. Quindi la tua risposta riguarda principalmente cose che possono essere valutate in linea con le posizioni di Marco Maurizi e Christian Stache: l’idea che la liberazione animale dipenda dalla trasformazione dei rapporti di produzione e dall’abolizione del capitalismo. Come hai sottolineato, “la rivoluzione socialista è propedeutica alla rivoluzione animale”. Naturalmente, siamo lieti di vedere ancora una volta da parte tua l’enfasi su queste posizioni e la necessità di “uccidere l’antispecismo così come lo conosciamo”. Ma, caro Dario, quando scrivevamo “Su quali basi e con quali analisi dovremmo convincere i leader e le masse popolari della necessità della liberazione animale oggi?”, per “oggi” intendevamo non l’oggi reale, ma l’oggi di quel mondo immaginario. Cioè di una situazione in cui non ci troviamo più di fronte ai rapporti capitalistici – gli stessi maledetti rapporti che sono considerati la causa principale dello sfruttamento degli animali (non ci occupiamo affatto del reale, complesso e lungo processo di eliminazione dei rapporti di merce in una società reale, e ci limitiamo a immaginare una situazione ideale).
Chiariamo l’obiettivo che abbiamo nell’immaginare questo scenario. Mentre nella maggior parte delle loro argomentazioni, Marco e Christian (e altri) rappresentano il punto centrale per l’emancipazione animale dalle relazioni capitalistiche, ad esempio quando Christian sostiene il ruolo del “capitale animale” rispetto all'”uomo in generale” nelle relazioni uomo-animale, o Marco afferma che l’esistenza dello sfruttamento animale è la ragione dello specismo e non il contrario; disegnando questo domani immaginario, noi vogliamo sfidarti a pensare a una situazione in cui sollevare quegli argomenti perderà la sua rilevanza decisiva e centrale. In quella situazione non ci troviamo più di fronte a relazioni capitalistiche, al “capitale animale” e allo “sfruttamento” nella sua accezione capitalistica e marxista. Ci troviamo di fronte ad attività produttive non a scopo di lucro, ma a beneficio delle persone. Quindi, nonostante la tua previsione che non avremo a che fare con pubblicità a scopo di lucro nei media, avremo però sicuramente a che fare con campagne educative di massa rivolte a bambini, giovani e altre persone. Non ci si stupisca che alla radio, in quella situazione, si ascolterebbe la notizia di “gite ricreative-culturali” per adolescenti, tra cui “pesca ricreativa” con pranzo di gruppo a base di pesce alla griglia, “visita allo zoo” come tour educativo, “visita alle industrie di tosatura delle pecore” come introduzione all’industria tessile e così via, che includono tutti casi di uso non necessario di animali. Non ci si stupisca che in occasione della vittoria della rivoluzione socialista, che dovrebbe essere la preparazione della rivoluzione animale, si diffonda la notizia di festeggiamenti e banchetti di massa con ogni tipo di cibo animale!
Arriviamo così alla domanda principale. In questo socialismo realizzato, dove i leader della rivoluzione e la maggioranza del popolo non “credono” nella liberazione degli animali, con quali argomenti dovrebbero accettare la necessità di cambiare lo status degli animali? Non possiamo più entrare in questo campo con gli argomenti di Marco, Christian e tuoi, perché la prima risposta sarà “Il capitalismo è finito! Ora il socialismo!”. E ora rimanete voi e quegli animali che dovete dimostrate non debbano essere usati dall’ “uomo”.
Caro Dario, in questa situazione dovremmo tornare ai dibattiti welfaristici e morali di Singer e Regan? Bisogna spiegare che gli animali hanno un valore intrinseco? È necessario arrivare all’argomento di Francione e dimostrare che gli animali non devono essere proprietà dell’uomo? Il prerequisito della rivoluzione animale – l’abolizione del capitalismo – non è più una questione rilevante, ma qualcosa di realizzato. La nostra richiesta è di preoccuparsi del fatto che il socialismo di per sé non significa la realizzazione immediata dell’emancipazione animale. Ed ad ogni modo questa emancipazione non è avvenuta in nessun posto dove sia avvenuta la rivoluzione chiamata “socialismo” (indipendentemente dalla natura reale di quella rivoluzione e dal suo scopo). È vero che voi dite che la realizzazione del socialismo faciliterà le condizioni della lotta per la liberazione degli animali, ma il dibattito principale riguarda la natura, la direzione e il contenuto di tale lotta in quel domani immaginato.
Come dire ai compagni e alla gente: “Anche le creature devono diventare libere”?

DARIO MANNI

In effetti ho parlato anche di cosa dovremmo fare come attivisti oggi, nella situazione reale e non in quella ipotetica che mi avete presentato. Ma ho anche compreso e risposto alla vostra domanda, dunque probabilmente non mi sono spiegato abbastanza bene neanche io. Non importa: questo mi dà modo di articolare la mia risposta. Come dicevo, sono d’accordo con voi. La questione animale dipende, in ultima analisi, dalla possibilità di convincere la società della sua importanza morale. “In ultima analisi”, però, per me non significa che la dimensione morale sia più importante di altro. Significa solo che, realizzata la liberazione umana, per realizzare anche quella degli altri animali dovremo infine ricorrere alla persuasione morale; o in altri termini che la dimensione politica non esaurisce quella morale. So che esiste un malinteso su questo, ma che io sappia nessun marxista antispecista ha mai sostenuto che la rivoluzione socialista fosse condizione necessaria e sufficiente per la liberazione animale. Che nel concreto corso storico la liberazione umana e quella degli altri animali possano parzialmente sovrapporsi è probabile: in qualche caso potrebbe essere opportuno – e io credo che spesso lo sia – condurre un’opera di moralizzazione circa la questione animale anche se la liberazione umana non è ancora avvenuta. Quello che trovo improbabile è che la liberazione umana e quella degli altri animali si sovrappongano completamente, e ancor più che invertano il loro ordine. Ciò su cui non concordo con quanto scrivevate, invece, è che riferire la questione animale al modo di produzione capitalistico in qualche modo ci disarmi e depotenzi. Trovo, al contrario, che renda possibile l’entrata dell’umanità nell’autentica dimensione morale o, per dirla con Marx, l’entrata dell’umanità nella “storia”. Con questa espressione, infatti, Marx si riferiva alla condizione in cui le relazioni umane cessano di essere sovra-determinate dalle relazioni di classe. E dato che la classe è una struttura super-individuale retta da regole proprie e indipendenti dal singolo individuo, con il riassorbimento delle classi nella libera società dei produttori auto-organizzati ciò che viene liberato è proprio l’individuo. Se le classi dominanti cessano di esistere non cessa di esistere la dimensione super-individuale in generale, ma non è più vero che le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti. Quindi l’individuo acquista un peso specifico molto maggiore rispetto a prima. Lo aveva capito bene il socialista Oscar Wilde, che diceva che il vero individualismo è il socialismo. Infatti a differenza dell’individualismo egoistico borghese (che è l’impossibile tentativo di liberazione del singolo in un contesto di oppressione collettiva cui spesso il singolo stesso, per liberarsi, partecipa attivamente), l’individualismo socialista esprime la condizione di autodeterminazione individuale resa possibile dal superamento della società di classe. Alla faccia della riduzione liberale del comunismo a totalitarismo! Insieme all’individuo, il socialismo libera anche la dimensione morale, che si riduce via via che si riduce la libertà individuale, e aumenta via via che quella libertà aumenta.

Ecco perché, come dicevo, la possibilità di un’umanità più morale sta, “in ultima analisi”, nella realizzazione di un’umanità socialista. È questo che intendo quando parlo del terreno fertile per la semina antispecista. E sì, la semina è l’operazione di convincimento morale del prossimo tramite l’informazione e la sensibilizzazione sulla questione animale, sia che essa avvenga nella forma dell’outreach di strada che in quella delle visite ai rifugi o dei libri, film, documentari, canzoni, articoli e interviste come questa; o in altri modi ancora. Rispetto all’antispecismo morale ispirato da Singer, Regan e Francione, però, noi marxisti abbiamo le idee più chiare su come funziona il cambiamento sociale, e non sprechiamo energie e risorse in opere di informazione e sensibilizzazione indiscriminate, a target indifferenziato e interclassista. In altri termini, non ci illudiamo che l’opera di informazione e sensibilizzazione sulla questione animale possa trasformare se non una parte minoritaria della società attuale. Ma trasformare in senso antispecista una società liberata è tutta un’altra storia che trasformarne una oppressa. Parlare a una persona non preoccupata e indurita dalla lotta per l’esistenza; non agguerrita e resa insensibile o stressata dalla competizione costante; non indotta a scelte di acquisto più favorevoli alle aziende dei prodotti animali e a votare i partiti che ne proteggono gli interessi; più informata ed educata di quanto non formino e educhino i nostri sistemi scolastici sempre meno finanziati e sempre più aziendalistici, è tutta un’altra storia. Il mio amico e filosofo marxista antispecista Marco Maurizi ha ulteriormente articolato questo aspetto della questione sviluppando un concetto tipico della Scuola di Francoforte. In sostanza, Maurizi ha coerentemente applicato alla questione animale la dialettica francofortese della liberazione socialista dell’umanità dalle minacce della natura esterna e la liberazione della natura interna umana repressa (che è agita allo scopo di rispondere meglio a quelle minacce). Parte della natura umana che viene liberata è costituita infatti dalla nostra “animalità”, che è una forma di comprensione e compassione verso gli animali non umani. In effetti, il compito socialista del superamento del maltrattamento degli animali non umani era già stato esplicitamente teorizzato da Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”. Ora si tratta di estendere il concetto di maltrattamento allo sfruttamento e all’uccisione non necessarie, e ciò ci conduce a quanto segue. Se la socializzazione della ricchezza porterà alla post-scarsità (scarsità che è oggi artificialmente prodotta dal modo di produzione capitalistico) e se – come pensiamo noi antispecisti politici e marxisti antispecisti in generale – discriminiamo gli animali non umani per sfruttarli meglio a scopo di profitto e/o per bisogno, allora una volta cessata la possibilità del profitto e una volta cessato il bisogno, la crudeltà e l’indifferenza verso gli animali non umani sarebbe non solo disincentivata, ma addirittura controproducente, perché ostacolerebbe la realizzazione di un’umanità più compassionevole, generosa e altruista. Tutte caratteristiche funzionali al mantenimento della società del socialismo realizzato e, ancor più, alla realizzazione della fase superiore del socialismo: il comunismo. Le ricerche psicologiche sul legame fra comportamenti disfunzionali, violenti e crudeli sugli animali non umani e quelli sugli animali umani, e le ricerche sui danni psico-fisici subiti dai lavoratori dei mattatoi e sull’accresciuta manifestazione di comportamenti anti-sociali da parte loro, sembrano corroborare questa tesi. Singoli episodi di violenza e perfino una fase iniziale in cui lo sfruttamento degli altri animali proseguirebbe sarebbero ancora possibili nella socialismo post-scarsità e, come dicevo in precedenza, potenzialmente potremmo non superare mai queste cose (il “mattatoio del popolo”). Ma la loro disfunzionalità rispetto al modo di produzione e alla società che avremmo realizzato e che vorremmo preservare, unita all’azione degli attivisti per la liberazione animale, ci darebbero ottime possibilità di riuscita. Ci sarebbe, ancora, da approfondire l’impatto che il contrasto alla crisi eco-climatica e alle ricorrenti emergenze sanitarie da epidemie di zoonosi avrebbero sullo sfruttamento degli animali non umani, ma si tratterebbe di fattori relativamente estrinseci al socialismo. Qui voglio solo accennare di passaggio, eventualmente rimandando una trattazione più approfondita dell’argomento a una successiva risposta, che a mio avviso sia la reazione socialista alla crisi eco-climatica sia quella alla diffusione di epidemie di zoonosi comporterebbero una diminuzione dello sfruttamento animale e contribuirebbero a preparare le condizioni per il suo superamento.

A questo punto devo sfatare un mito sull’antispecismo politico teorizzato dal già citato Marco Maurizi e sul marxismo antispecista in generale: noi antispecisti politici, noi marxisti antispecisti non siamo contro Singer, Regan e Francione quando questi filosofi spiegano perché discriminare gli altri animali sia immorale. Possiamo discutere di quale etica faccia più al nostro caso, se l’utilitarismo, l’etica deontologica o altro ancora; ma non abbiamo dubbi sull’ingiustizia della discriminazione sulla base della specie. Noi siamo contro Singer, Regan e Francione quando sottovalutano le condizioni materiali di esistenza; quando credono che siano le idee a cambiare la società e che la società cambi man mano che cambiano i singoli individui che la compongono. Siamo contro di loro quando fanno come se la liberazione animale potesse avvenire senza quella umana. Siamo contro di loro in quanto filosofi borghesi che esprimono una tradizione liberal e una concezione moralistica – nel senso di fondata sulla morale e quindi sulla credenza più o meno implicita nella concreta possibilità della libertà incondizionata dell’individuo – del cambiamento sociale. Ma l’antispecismo politico non è un antispecismo immorale o amorale. È vero il contrario. L’antispecismo politico è un antispecismo veramente morale (come l’individualismo socialista è il vero individualismo), anzi è l’unico antispecismo morale possibile proprio perché è morale, non moralista. Lungi dall’essere una peculiarità degli antispecisti politici, il riconoscimento dell’importanza della morale è un filo rosso che lega Marx, Engels e la “morale proletaria” al “Che” Guevara che raccomandava “siate sempre capaci di sentire nel profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”. In Italia ha fatto storia l’espressione “Questione morale”, utilizzata dall’ex-segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, per indicare la – opinabile – miglior tempra morale dei comunisti dell’epoca rispetto ai loro avversari politici; e comunque la necessità che il Partito fosse davvero più onesto, altruista e disinteressato degli altri partiti. Anche un uomo come Lenin, considerato poco sentimentale, affermava nel “Che fare?” che bisogna educare la classe operaia a reagire contro ogni abuso, ogni oppressione, ogni arbitrio e ogni violenza; perfino (ed è gigantesco da parte sua) a prescindere dalla classe coinvolta!

WE ANIMALS

In una delle nostre conversazioni con lui, Marco [Maurizi, NdT] ha protestato perché stavamo girando in tondo. Intendeva che ci stavamo tornando sugli stessi argomenti. Ci scusiamo se dovremo tornare su alcuni temi in questa sede, e speriamo che ciò non ti stanchi.
A sostegno dell’aspetto morale della determinazione del compito finale sulla questione degli animali nel socialismo, tu scrivi che “in ultima analisi” secondo te significa solo che “dopo aver raggiunto la liberazione dell’uomo, per raggiungere la liberazione degli altri animali dobbiamo infine ricorrere alla persuasione morale”. Naturalmente hai ragione. Ed è esattamente quello che stiamo dicendo: dopo aver realizzato il socialismo, entriamo nel campo della persuasione morale. A nostro avviso, in condizioni di rovesciamento del capitalismo e di instaurazione di una società socialista – come prerequisito per una rivoluzione animale – entriamo in una lotta la cui direzione sarà morale. In tale situazione, la lotta contro lo specismo che domina la società non si basa più sul percorso di demarcazione con il capitalismo, che si basa sulla lotta contro le abitudini, le credenze e le mentalità lasciate da vecchie relazioni storiche. Si può concludere che nell’era post-capitalista e durante il progresso verso il socialismo, si creerà spontaneamente una sorta di unità di azione e di obiettivi tra il marxismo antispecista e gli attivisti per la liberazione degli animali. In quella situazione, non ci sarà alcuna contraddizione di fondo tra gli obiettivi dei marxisti antispecisti e le azioni dei vegani nella persuasione morale della società (la stessa presenza in strada, i film, i libri, le interviste, ecc. di cui hai parlato), e per la prima volta si realizzerà l’unità di azione [nel movimento di liberazione animale, NdT]. Ciò che rimane sarà il discorso sulle soluzioni più efficaci e fondamentali per la liberazione degli animali, ad esempio la critica alle visioni puramente welfaristiche, la necessità di stabilire l’identificazione morale degli animali non come oggetti di consumo, e così via.
Non si tratta di qualcosa di cui vergognarsi o da negare. Perché anche se è facile realizzare il socialismo sulla carta e in questo dialogo, la sua effettiva realizzazione non sarà possibile e pratica se non attraverso la sofferenza e la tortura dei marxisti e delle classi oppresse – in modo che non sia più un “domani immaginario”.
Sei d’accordo con questi punti di vista?

 

DARIO MANNI

Concordo pienamente. Ovviamente anche in una società liberata gli elementi super-individuali – e dunque meno che morali, nel senso di “morale” che ho spiegato sopra – continuerebbero ad esistere e a produrre effetti, favorendo la diffusione dell’idea “A” e sfavorendo la diffusione dell’idea “B”. Anche in una società liberata l’economia e la cultura continuerebbero ad essere fenomeni di ampiezza sociale, i cui confini travalicherebbero la sfera individuale. Ma, come dicevo, le idee dominanti non sarebbero più le idee delle classi dominanti (perché le classi dominanti non esisterebbero più); e dato il vertiginoso “mismatch” fra il capitale economico e culturale delle classi dominanti e quello delle classi dominate, con la redistribuzione di risorse e ricchezze secondo giustizia, in nessun individuo e in nessun gruppo si assommerebbe più tanto potere da impedire che idee fino a quel punto minoritarie si diffondano. Data l’affermazione di una società più razionale (perché non attraversata dalle spinte caotiche dell’anarchismo produttivo), sarebbe più razionale anche il criterio della diffusione e dell’affermazione delle nuove idee; e sarebbe più razionale l’umanità in generale. Dunque meno superstiziosa e meno acriticamente conformista. Contrariamente a quanto diceva John Locke sulle nuove opinioni che vengono generalmente contrastate solo per il fatto di non essere ancora diffuse (il che è precisamente ciò che accade nelle società tradizionali e borghesi contemporanee), mi sembra verosimile che l’umanità liberata sarebbe molto più intellettualmente audace e curiosa di quella di cui facciamo parte. Infine, benché siano necessari studi che confermino l’applicabilità di questo dato a livello mondiale, è stato trovato che l’adesione individuale all’antispecismo si accompagna a livelli di istruzione più alti della media della popolazione (Niccolò Bertuzzi, 2018). Non sembra del tutto privo di fondamento, allora, prevedere l’effetto positivo che la maggiore e migliore scolarizzazione dell’umanità liberata avrebbe sulla diffusione dell’ideale di liberazione animale.

WE ANIMALS

Di recente è stato pubblicato un breve articolo di uno dei ricercatori eco-socialisti iraniani, che ha analizzato la situazione dell’industria dei polli. In esso, l’autore ha menzionato il concetto di sfruttamento dei non umani. Uno dei lettori, che si considera marxista, ha lasciato un commento in cui mette in dubbio l’applicazione del concetto di sfruttamento ai non umani e accusa l’autore di eclettismo e di non comprendere i concetti dell’economia politica di Marx.
Vorremmo farti una domanda su questo.
Il rapporto animali-capitale è un argomento che è stato discusso da diverse angolazioni. Da Jason Hribal, che vede gli animali come parte della classe operaia, a Bob Torres, che li ritiene merci super-sfruttate. Rifiutando entrambi i punti di vista, Christian Stache affronta la questione da un’altra angolazione e spiega il rapporto animali-capitale nel quadro del concetto di “capitale animale”. Se accettiamo che, poiché gli animali non vendono liberamente il loro lavoro come i lavoratori umani e non ricevono salari, non comprano e non vendono liberamente sul mercato e non hanno una resistenza organizzata nel processo di produzione, eccetera, allora non rientrano nel concetto di sfruttamento di Marx, sorge una domanda fondamentale: su quali basi i marxisti dovrebbero prendere una posizione politica, operativa e programmatica riguardo alla questione degli animali? Se gli animali non hanno niente a che fare con il lavoro e il capitale, quale dovrebbe essere il punto di partenza per i marxisti?

 

 

DARIO MANNI

Questo è un tema di grande importanza perché, come avete potuto constatare voi stessi, suscita un certo dibattito all’interno del marxismo e quindi influisce sulla possibilità che i marxisti abbraccino o meno l’antispecismo. Credo che i marxisti abbiano ragione a pretendere maggiore esattezza da parte nostra, soprattutto se vogliamo parlare dell’impatto del modo di produzione capitalistico sugli animali non umani e di come questi ultimi vi prendano parte. Dobbiamo applicare l’analisi marxiana ai nuovi fenomeni sociali, economici e culturali, semmai arricchendola; non regredire dal socialismo scientifico alle forme più rozze di socialismo, o a idee anarchiche. “Il problema è che la fonte della valorizzazione del capitale è l’accumulazione di valore di scambio, cioè la proprietà di una merce di essere paragonata quantitativamente, non qualitativamente, ad ogni altra merce, e quindi scambiata con essa e in particolare con l’equivalente generale che è il denaro. Il lavoro animale, non essendo a sua volta venduto come merce sul mercato, non può incamerare né aggiungere valore di scambio alle merci (Stache 2019: 15). Solo il lavoro che incamera e aggiunge valore di scambio alle merci è lavoro produttivo in senso capitalistico.” Il virgolettato è tratto da un recente articolo con cui io e Marco Maurizi abbiamo cercato di contribuire alla discussione sul ruolo degli animali non umani nel modo di produzione capitalistico. Quel che sosteniamo è che in effetti, dal punto di vista marxista, in tale modo di produzione gli animali non umani sono usati come capitale fisso e non variabile (ovvero come mezzi produttivi, non forza lavoro); e che sono più assimilabili agli schiavi umani (anch’essi capitale fisso) che ai salariati. L’analogia con gli schiavi piuttosto che con ciò che tipicamente compone il capitale fisso, ovvero le macchine, ci sembra in linea con il darwinismo marxiano. Benché credesse che fra animali umani e non vi fosse una differenza ontologica (la capacità di lavoro intenzionale e finalizzato), è improbabile che Marx credesse gli altri animali così distanti dagli umani; tant’è che, nel passo de La questione ebraica che avete citato in precedenza, egli parla della liberazione di tutte le creature (dalla mercificazione capitalistica). La relativa vicinanza fra animali umani e altri animali è simile a quella che Marx poneva fra schiavitù e lavoro salariato. In certi passi de Il capitale quest’ultima appare eccezionalmente sfumata. Per esempio nella V sezione del libro 1, capitolo 14: “… il modo di sfruttamento capitalistico si distingue da quelli precedenti, come per il sistema schiavistico, ecc., solo per il fatto che in questi ultimi il plusvalore viene estorto per mezzo della coercizione diretta, mentre nel primo viene ricavato dalla «libera vendita» della forza lavorativa”. O ancora: “Portato a termine l’affare [la vendita del proprio lavoro da parte del salariato, NdR], ne viene fuori che egli non era un «libero agente», che il tempo per cui egli può liberamente vendere la propria forza lavorativa è il tempo per egli è costretto a venderla, che in effetti il suo vampiro non lo molla «fintantoché v’è un muscolo, un nervo, una stilla di sangue da sfruttare». Per «difendersi» dal serpente che li strazia gli operai debbono unire le loro teste e ottenere con la forza e come classe una legge statale, una potentissima barriera sociale, che non li costringa, tramite un volontario contratto col capitale, a vendere se stessi e la loro progenie alla morte e alla schiavitù.” (libro 1 sezione III, 8.7). Tuttavia non dobbiamo interpretare questi passi alla lettera, o quantomeno dobbiamo metterli in relazione con la teoria marxiana nel suo complesso. Marx chiarisce a più riprese, infatti, che sebbene il “plusvalore naturale” (ovvero la possibilità di sfruttare il lavoro altrui per la riproduzione dell’esistenza di chi lo sfrutta) sia sempre esistito, il modo di produzione capitalistico segna una profonda discontinuità rispetto a tutti i modi precedenti perché in esso le esigenze umane, da una parte, e le forze produttive, dall’altra, sono giunte a un grado di sviluppo abbastanza grande da rendere possibile l’elevazione dello sfruttamento particolare a sistema. Tant’è che, rispetto allo schiavo, il proprietario del lavoratore salariato non è il singolo capitalista, ma la classe dei capitalisti. Per l’antico padrone, quando il plusvalore prodotto dal proprio schiavo o ottenuto tramite saccheggio e come bottino di guerra non era utilizzato per il consumo, a scopo di lusso o auto-celebrativo (come per i grandi capi indiani Kwakiutl studiati da Ruth Benedict, che per mostrare il proprio potere distruggevano periodicamente le proprie ricchezze durante fastose cerimonie pubbliche), si traduceva nel piccolo risparmio o nella grande tesaurizzazione. Per il capitalista, invece, l’appropriazione di un plusvalore sempre crescente è una necessità dovuta al costante incremento dei costi degli investimenti in capitale fisso e all’accrescimento delle dimensioni della produzione, che sono le condizioni per la sua sopravvivenza nel mercato concorrenziale. Malgrado quanto pensa l’autore del commento di cui mi avete raccontato, comunque, il fatto che gli animali non umani sono esseri sfruttati come molti esseri umani è perfettamente coerente con la teoria marxiana. Come detto, l’errore è piuttosto assimilarli alla classe lavoratrice e attribuirgli la produzione sociale di plusvalore. Ma non si dà sfruttamento solo laddove si dia estrazione sociale di plusvalore. Come è detto nel paragrafo 10 del capitolo 13 della IV sezione del primo libro de Il capitale, è tutta la natura ad essere sfruttata per via dell’iper-consumo degli elementi costitutivi della “terra”. E per quanto ciò ci faccia restare nell’ambito dell’ambientalismo protezionista e dell’animalismo welfarista, il fatto che questo iper-consumo impedisca il “ricambio materiale” fra “terra” e umanità conduce il marxismo a tutelare la natura e, con essa, gli animali non umani. Perciò non solo nella teoria marxiana nulla ostacola in maniera insuperabile la fondazione di un marxismo antispecista (che in effetti esiste già da tempo); ma anzi tutto la propizia.

Come scritto da me e Maurizi nell’articolo che ho citato all’inizio di questa risposta, dato che nel modo di produzione capitalistico si produce per il profitto e non per l’uso (D-M-D’), anche lo sfruttamento degli animali non umani avviene per il profitto e non per l’uso. Non solo. Come mezzi di produzione, le macchine sono e diverranno sempre più produttive rispetto agli animali non umani, anche in campo alimentare. Il bio-reattore e la stampante di carne e di derivati animali coltivati hanno già fatto il loro ingresso sul mercato, e promettono di aumentare i profitti e mitigare la crisi climatica come nessuna transizione del sistema alimentare che continuasse a comprendere l’allevamento di animali non umani potrebbe fare. Se dunque l’affermazione del modo di produzione capitalistico – che presuppone il dominio della natura – ha intensificato lo sfruttamento animale, come ha detto Lenin, l’estremo sviluppo delle forze produttive che tale modo favorisce prepara la corda con cui lo impiccheremo. Comprendere che dal punto di vista economico e delle loro possibilità di organizzazione gli animali non umani non sono assimilabili alla classe lavoratrice è molto importante perché chiarisce le possibilità rivoluzionarie dell’uno e dell’altro soggetto. La classe lavoratrice riproduce quella capitalista vendendosi ad essa come manodopera; e acquistando da essa sul mercato globale al fine di riprodursi. Liberando se stessa, essa può allora liberare anche gli animali non umani dalla mercificazione capitalistica; è per questa ragione che il primo obiettivo di lotta degli attivisti per la liberazione animale dovrebbe essere la rivoluzione socialista.

Con il superamento del modo produttivo capitalistico, lo sfruttamento animale cessa di essere necessario e diventa semmai, per dirla con Antonio Gramsci, un fossile folkloristico:  ovvero un elemento culturale statico, espressione di condizioni di vita passate. Dunque si fa finalmente superabile e plausibilmente (per le ragioni esposte nelle precedenti risposte) viene realmente superato.

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