Di Danilo Gullotto

Il cambiamento climatico di matrice antropica continua inesorabilmente a bruciare le sue tappe persino oltre ogni pessimistica previsione, come anche riportato dai mezzi stampa a proposito del precoce raggiungimento dei 2 °C di surriscaldamento medio globale registrato dai termometri dei climatologi in corrispondenza di un “esoterico” venerdì 17 del novembre corrente anno, quasi a voler preconizzare inquietanti maledizioni [1]. Al momento, tutti gli sforzi dei governi nel tentativo di contrastare il fenomeno si sono rivelati inadeguati, complice la loro malcelata sudditanza nei confronti di quelle multinazionali capaci di dettare pressoché indisturbati l’agenda delle politiche energetiche, a causa di cinici interessi legati al profitto e perseguiti dalla minoranza degli ultra ricchi contro la condotta della restante popolazione mondiale [2]. Tra gli organismi più autorevoli, sembra che soltanto l’ONU e gli esperti del clima facenti parte della comunità scientifica abbiano saputo trovare il coraggio di lanciare moniti che manifestino una più genuina preoccupazione circa i reali pericoli a cui stiamo andando incontro. Ad esempio, è recente l’appello lanciato da diversi scienziati di fama internazionale affinché venga riconosciuto uno stato di emergenza sanitaria globale dovuta agli effetti del cambiamento climatico [3]. Nel suddetto documento, il messaggio che si cerca di far passare è quello di non aspettare domani per mettere in atto tutte le misure necessarie a contenere il surriscaldamento globale, dal momento che anche un serio tentativo di ridurre le future emissioni di CO2 potrebbe ormai rivelarsi insufficiente ad evitare pesanti ripercussioni sulla salute del nostro pianeta, mentre gli effetti del clima sulla salute umana si rivelano già oggi peggiori di quelli causati dalla pandemia del Covid-19, mietendo prematuramente circa 7 milioni di vite ogni anno. A questo genere di appelli si è recentemente unito anche quello di un editoriale pubblicato simultaneamente da oltre 200 riviste scientifiche mediche, che insiste ulteriormente sulla proclamazione di uno stato di emergenza sanitaria mondiale e che descrive gli impatti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità su diversi aspetti sensibili per la salute pubblica [4]. Nel suddetto editoriale, si sottolinea come la crisi climatica e la devastazione dell’ambiente siano ormai due problemi tra loro indivisibili che minacciano la distruzioni dei sistemi economici e sociali internazionali, a causa di fattori come l’inaridimento dei suoli, la penuria idrica e alimentare, l’inasprimento della povertà, l’esacerbarsi dei conflitti e della disuguaglianza, l’aumento delle malattie infettive, ecc.., con inevitabili ricadute sulle popolazioni più esposte, tanto sul piano della salute fisica quanto su quello della salute mentale. Di converso, gli studiosi evidenziano come un rapporto armonioso con la natura possa altresì favorire la salute, traducendosi in una riduzione dello stress, un miglioramento delle condizioni psico-fisiche, nell’uscita da uno stato di isolamento sociale e, quindi, nel rafforzamento delle relazioni interpersonali, ovvero tutta una serie di fattori vantaggiosi sovente messi in pericolo dal progressivo aumento dell’urbanizzazione. Dal momento che gli obbiettivi sanciti dagli accordi internazionali per il contrasto della crisi climatica risultano disattesi, il rischio di un impatto catastrofico sulla salute globale diventa sempre più concreto, motivo per il quale i firmatari dello studio in questione auspicano che venga dichiarato lo stato di emergenza da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Diversamente, gli effetti del clima sulla salute umana e sulla perdita di biodiversità potrebbero travalicare i confini dei singoli Paesi, esasperando oltre misura il già delicato equilibrio internazionale. Gli studiosi concludono con l’affermare che la risoluzione di queste problematiche richiede l’adozione di una visione alternativa del concetto di qualità della vita, passando per un ripensamento dei nostri modelli di spreco e di consumo, nonché del rapporto tra esseri umani e natura, attraverso la riduzione delle diseguaglianze, la promozione di modelli educativi rispettosi dell’ambiente e il genuino interessamento da parte della politica alle tematiche ivi enumerate.

Tuttavia, sebbene simili appelli abbiano trovato il favore della stampa “mainstream”, sembra che a livello mediatico troppa poca attenzione sia stata rivolta a un aspetto non meno dirimente collegato alla salute globale, ovvero quello delle migrazioni dovute al cambiamento climatico. Per fortuna, alcuni studi scientifici hanno comunque affrontato questo problema sotto diverse angolazioni, mettendo in luce sia le cause che le conseguenze generate dai fenomeni migratori per effetto del cambiamento climatico e ponendole in relazione con la salute pubblica. Ad esempio, un recente studio sull’argomento, intitolato “Climatic and Environmental Change, Migration, and Health”, ci informa che le conseguenze del cambiamento climatico, compresi fattori come l’innalzamento del livello del mare e gli eventi meteorologici estremi, avranno un impatto crescente e trasformativo sulla migrazione in termini di salute [5]. Lo studio si concentra su una recente ricerca pubblicata a partire dal 2018, che esplora la relazione interdipendente tra cambiamento climatico, mobilità umana e salute. La ricerca si concentra principalmente sulla mobilità all’interno di regioni come l’Asia, l’Africa e le nazioni insulari del Pacifico e cerca di stabilire connessioni tra il fenomeno migratorio e il cambiamento climatico causato dalle attività antropiche, documentando i risultati di studi empirici che indagano le implicazioni sulla salute per causa degli spostamenti, delle ricollocazioni pianificate, della migrazione e del movimento di persone in aree che risultano a rischio a causa di questioni legate al clima. Nello studio si individuano tre forme principali di mobilità legata al fenomeno climatico:

  1. Sfollamento: lo spostamento forzato di persone dalle proprie case a causa di disastri legati al cl
  2. Trasferimento (noto anche come reinsediamento, ritiro, riallineamento): lo spostamento permanente di infrastrutture e persone lontano da aree pericolose e verso una nuova destinazione.
  3. Migrazione: movimento volontario di persone all’interno o attraverso i confini nazionali, spesso guidato da molteplici fattori, compresi quelli legati al clima.

 

In particolare, le persone migrano sia da che verso aree esposte a rischi climatici. Inoltre, ci sono popolazioni che preferiscono rimanere nei luoghi vulnerabili ai rischi legati al clima a causa di fattori quali limitate risorse finanziarie, umane e sociali o un forte attaccamento alle proprie dimore. Tuttavia, gli impatti dei cambiamenti climatici si intersecano con altri fattori che influenzano la mobilità. Anche nelle regioni altamente suscettibili agli impatti climatici, i migranti spesso non citano il clima come motivo principale della loro decisione di spostarsi. Invece, gli eventi climatici stimolano indirettamente la migrazione attraverso effetti come la ridotta produttività del territorio, l’interruzione dei mezzi di sussistenza, l’insicurezza alimentare e idrica e il deterioramento delle condizioni di vita. Sono stati fatti vari tentativi per stimare il numero di persone che migreranno a causa degli impatti del cambiamento climatico, ma poche valutazioni quantitative separano efficacemente il cambiamento climatico da altri fattori di migrazione o considerano la capacità umana di adattarsi ai rischi climatici. Si conclude che gli effetti dei cambiamenti climatici e il loro impatto sulla salute umana e sulla mobilità non sono uniformi e vengono vissuti in modo diverso tra le varie popolazioni. Nello studio, si riportano esperienze locali di anomalie meteorologiche e ambientali che sono fortemente indicative di cambiamenti climatici di origine antropica, come l’erosione costiera e delle sponde dei fiumi, le inondazioni, il caldo estremo, gli uragani e, più in generale, la vulnerabilità climatica. Le minacce alla salute dei migranti climatici includono il rischio di malattie infettive, l’esposizione al caldo estremo, i problemi di salute mentale, l’insicurezza alimentare, l’accesso inadeguato all’acqua pulita e ai servizi igienico-sanitari, le condizioni di vita al di sotto degli standard, l’accesso limitato all’assistenza sanitaria, lo sfollamento e l’esclusione sociale. Affrontare queste minacce richiede un’assistenza sanitaria che includa anche i migranti e sia resiliente ai cambiamenti climatici, insieme a sforzi coordinati che siano incentrati sui determinanti sociali della salute. Il cambiamento climatico sta già rappresentando un rischio significativo per la salute globale, sottolineando la necessità di salvaguardare le popolazioni in movimento e consentire loro di fare scelte informate in un mondo che sperimenta un fenomeno di riscaldamento accelerato.

Un ulteriore studio degno di nota, dal titolo “Climate change, human migration, and skin disease: is there a link?” si concentra più specificatamente sulle malattie della pelle accusate dai migranti climatici [6]. Quando le persone migrano, possono trasportare malattie dal luogo di origine alle nuove destinazioni, esponendo potenzialmente le popolazioni native a infezioni mai incontrate prima. Tra le popolazioni migranti, le malattie della pelle sono tra i problemi di salute più comunemente osservati. Per sensibilizzare i dermatologi sulla prevalenza delle malattie della pelle nei migranti, un gruppo di studiosi ha condotto una ricerca in letteratura scientifica per identificare articoli che colleghino il cambiamento climatico, la migrazione e le condizioni di salute della pelle. Le malattie della pelle legate alla migrazione umana possono essere classificate in tre gruppi principali: (i) malattie contagiose, (ii) malattie non trasmissibili e (iii) malattie influenzate da fattori ambientali. Il crescente afflusso di migranti presenta nuove sfide ai sistemi sanitari nei paesi di destinazione. I dermatologi, in particolare, si trovano ad affrontare un numero crescente di pazienti affetti da malattie cutanee infettive rare o non comuni, mai osservate in precedenza nelle loro regioni. Queste malattie, che stanno emergendo oltre i loro tipici confini geografici, possono facilmente passare inosservate, portando a diagnosi ritardate o errate. Tali ritardi possono peggiorare le condizioni di salute dei pazienti e contribuire alla diffusione di queste malattie tra i membri della popolazione locale, la quale non possiede nessuna resistenza immunologica capace di affrontare simili infezioni.  Anche in questo studio si sottolineano le cause che spingono le popolazioni verso la migrazione: i cambiamenti climatici, come tempeste violente, cicloni, siccità, innalzamento del livello del mare e inondazioni, portano ad un aumento della salinità del suolo e al degrado del territorio. Queste condizioni avverse si traducono in una riduzione dei raccolti e in una carenza di risorse alimentari locali. Pertanto, la combinazione di scorte alimentari ridotte e tassi di natalità elevati può aggravare la salute della popolazione. Il degrado del suolo, le cattive condizioni sanitarie, gli alti tassi di natalità, il sovraffollamento e i conflitti regionali possono spingere anch’essi collettivamente le persone a migrare. Questa migrazione forzata, caratterizzata da notevole stress, può contribuire ad un aumento delle malattie della pelle. La crescente prevalenza delle malattie umane legate al cambiamento climatico può essere attribuita alla formazione di nuovi ambienti che favoriscono gli agenti infettivi, i loro vettori e i serbatoi di infezione. Quindi, il riscaldamento globale può portare a eventi estremi che, a loro volta, possono provocare epidemie di malattie infettive, comprese quelle trasmesse dagli insetti, attraverso l’aria, le zoonosi, le infezioni fungine di nuova insorgenza, le malattie fecali-orali e gravi condizioni allergiche. Queste trasmissioni si verificano nel contesto di ambienti vulnerabili, pratiche sanitarie inadeguate nelle aree di insediamento e accesso limitato ai servizi sanitari.

In aggiunta, un recente studio dal titolo “Global migration: Moral, political and mental health challenges” si propone di far luce su alcuni degli ostacoli che i governi e i servizi sanitari devono affrontare per facilitare l’integrazione sociale e il benessere mentale dei migranti che fuggono dalla loro terra d’origine per motivi come le disparità economiche, la sicurezza personale e familiare e il profondo impatto causato dal cambiamento climatico [7]. Gli operatori sanitari necessitano di formazione e risorse adeguate per assistere efficacemente questi migranti, con particolare attenzione alla loro resilienza e ai processi di adattamento a lungo termine. Per combattere la discriminazione sistemica e la violenza strutturale spesso incontrate dai migranti, è necessario uno sforzo globale, unito e persistente. Sempre secondo questo studio, esistono forti disparità nel modo in cui vengono accolti coloro che hanno le risorse per viaggiare per svago o per istruzione rispetto a coloro che sono sfollati con la forza o che lottano per sopravvivere. Molti governi hanno implementato misure sempre più severe per scoraggiare la migrazione, come la costruzione di muri ai loro confini e l’imposizione di dure pratiche di detenzione o deportazione. Tuttavia, a fronte delle crescenti pressioni per la ricerca di sicurezza ed equità, queste misure sollevano questioni etiche sulla sopravvivenza dei migranti e sulla giustizia sociale. L’iniqua distribuzione globale della ricchezza e della salute è il risultato di secoli di colonialismo, sfruttamento e genocidio, aggravati da alcune politiche e pratiche economiche associate alla globalizzazione. Affrontare queste disuguaglianze è un imperativo etico, politico e legato ai diritti umani. Molti degli attuali sforzi per limitare la migrazione internazionale sono disumani ed economicamente infondati. La prosperità economica è strettamente legata alla creatività e al rinnovamento che accompagnano la migrazione. In effetti, alcuni studi hanno suggerito che l’immigrazione aperta, nonostante le sfide a breve termine nell’adattamento e nell’integrazione dei nuovi arrivati ​​nelle società ospitanti, ha il potenziale di generare trilioni di dollari per l’economia globale, offrendo un vantaggio a lungo termine a coloro che si rivelano tolleranti nei confronti dei migranti. Date queste preoccupazioni etiche ed economiche, è tempo che i governi e i cittadini di tutto il mondo smettano di opporsi alla migrazione e sfruttino invece il suo potenziale a beneficio di tutti. Ciò richiede un cambiamento nel modo in cui percepiamo i migranti e i rifugiati, riconoscendoli come esseri umani che dovrebbero essere accolti come ospiti piuttosto che come trasgressori o invasori. La capacità umana di adattarsi a nuovi ambienti riflette la nostra flessibilità cognitiva, ingegnosità e capacità di cooperazione sociale. Tuttavia, la risposta politica alla migrazione gioca un ruolo cruciale nel definire le sfide che migranti e rifugiati affrontano quando arrivano nei loro paesi di adozione. I governi e le istituzioni dovrebbero considerare l’adattamento dei nuovi arrivati ​​come un investimento nell’integrità e nel benessere futuri della loro società e della loro cultura. La migrazione offre ai governi, ai sistemi sanitari, alle istituzioni e agli individui la possibilità di acquisire nuove lingue, costumi e credenze. Essa fornisce inoltre l’opportunità di migliorare la tolleranza e lo spirito di servizio verso gli altri. Quando ai migranti viene data la libertà di perseguire i propri talenti e aspirazioni, essi possono contribuire alla costruzione di società in cui le differenze non creano divisioni ma consentono invece a culture diverse di coesistere, mescolarsi e fondersi in modi nuovi. Ciò arricchisce le strutture sociali con un arazzo di diversità.

Con l’intento di approfondire ulteriormente il problema della salute mentale dei migranti climatici, uno studio intitolato “The centrality of social ties to climate migration and mental health”, prevede che i rischi e i disastri legati al cambiamento climatico, noti per avere effetti dannosi sulla salute fisica e mentale, spingeranno la migrazione umana oltre i livelli attuali [8]. Le migrazioni e gli spostamenti indotti dall’ambiente possono interrompere le connessioni sociali esistenti, causando conseguenze potenzialmente negative per le popolazioni in movimento e i rispettivi familiari che rimangono nei luoghi di origine. Questa rottura dei legami sociali è un meccanismo fondamentale attraverso il quale la migrazione legata al clima può avere un impatto negativo sulla salute mentale. Sebbene studiosi e politici abbiano identificato varie conseguenze sulla salute per effetto dei cambiamenti climatici, tra cui la diffusione di malattie infettive, lesioni e morte dovute a disastri naturali e malattie legate al caldo, la discussione degli impatti sulla salute legati alla migrazione climatica è stata finora limitata. La salute mentale, in particolare, è una componente fondamentale del benessere della popolazione. Per colmare questo divario, gli studiosi hanno proposto un quadro che considera i legami sociali sia come fattori trainanti che come modificatori della migrazione climatica e degli esiti sulla salute mentale dei migranti. L’attenzione di questi studiosi alla salute mentale è dovuta alla forte evidenza empirica che collega i legami sociali col benessere mentale, nonché alla relativa scarsità di letteratura che affronta questo tema nel contesto del cambiamento climatico. Nelle comunità di destinazione, i migranti spesso sperimentano una sostanziale emarginazione sociale. Pertanto, le politiche e i programmi che mirano a sostenere i legami sociali tra i migranti e le loro famiglie e tra i membri della loro comunità sono cruciali per migliorare la resilienza della popolazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, portando in ultima analisi a migliori risultati in termini di salute mentale. I legami sociali consolidati possono offrire preziose risorse sociali e materiali che fungono da cuscinetto contro i fattori di stress sulla salute mentale dovuti a eventi climatici prolungati o acuti. Prepararsi a tali eventi può anche servire a rafforzare questi legami e a proteggere la salute mentale. Le comunità possono sfruttare queste connessioni sociali, in primo luogo per mitigare il cambiamento climatico stesso e, in secondo luogo, per adattarsi ai disastri di questo fenomeno all’interno delle loro comunità di origine. Inoltre, i legami sociali possono svolgere un ruolo fondamentale nel plasmare le decisioni sulle destinazioni della migrazione. Ad esempio, la ricerca ha dimostrato che la migrazione dei pastori Fulbe dell’Africa occidentale, motivata dalla siccità, è stata possibile solo grazie allo sviluppo a lungo termine delle reti sociali tra migranti e non migranti attraverso il commercio e il pascolo stagionale. Tuttavia, vale la pena notare che i legami sociali non sempre apportano benefici alla salute mentale. Alcuni migranti, in particolare quelli provenienti da regioni economicamente svantaggiate o comunità prive di reti di sicurezza formali, potrebbero dover affrontare un onere significativo nel fornire sostegno finanziario ed emotivo ai familiari che rimangono nei loro paesi di origine.

I paesi a basso e medio reddito sono colpiti in modo sproporzionato dai cambiamenti climatici nonostante abbiano contribuito meno al riscaldamento globale. Ristabilendo e rafforzando i legami sociali sia nelle comunità di origine che in quelle di destinazione, è possibile migliorare la resilienza, alleviando potenzialmente alcune delle conseguenze negative sulla salute mentale derivanti da eventi legati al clima sia improvvisi che prolungati. Strategie efficaci per raggiungere questo obiettivo possono comportare sempre più l’utilizzo di nuove tecnologie. Tuttavia, è imperativo valutare rigorosamente l’efficacia di queste tecnologie nel promuovere la coesione sociale e migliorare la salute mentale delle popolazioni in movimento e dei loro familiari.

Le strategie progettate per favorire la connessione sociale dovrebbero tenere conto della possibile tensione sociale ed economica vissuta dai migranti e dagli sfollati. Ciò include l’onere finanziario associato all’obbligo di inviare rimesse a familiari e amici rimasti nei luoghi di origine. I costi e gli sforzi legati al sostegno ai migranti e agli sfollati dovrebbero richiamare ad una responsabilità globale per le conseguenze del cambiamento climatico: è essenziale riconoscere che l’ingiustizia ambientale ha dato origine al cambiamento climatico di origine antropica. Le stesse emissioni di gas serra che determinano il cambiamento climatico hanno contemporaneamente alimentato la crescita economica di paesi e individui ricchi. Ora, sono i paesi in via di sviluppo e quelli meno abbienti a sopportare le conseguenze degli impatti climatici, quali l’aumento del rischio di sfollamento, legami sociali interrotti e ricadute sul piano della salute mentale. Garantire il benessere mentale di queste popolazioni in movimento è una questione di giustizia sociale. Ciò comporta l’implementazione di strategie che supportino e rinforzino i legami esistenti e che facilitino l’integrazione sociale all’interno delle comunità di destinazione, in particolare per i migranti che potrebbero dover affrontare uno sfollamento permanente dai loro luoghi di origine.

Ai fenomeni migratori dovuti al clima che interessano lo spostamento delle popolazioni dai paesi in via di sviluppo a quelli ricchi, si aggiungono quelli interni agli stessi paesi in via di sviluppo, come descritto nello studio dal titolo “Perception of climate change, loss of social capital and mental health in two groups of migrants from African countries”. Come sottolineato in questo studio, l’esposizione delle comunità agli effetti del cambiamento climatico varia da paese a paese, con un impatto maggiore su coloro che risiedono nelle aree rurali, sugli individui già alle prese con la malnutrizione, sui bambini, sulle donne, sugli anziani, sulle persone con condizioni di salute croniche, su coloro che hanno un’istruzione e una conoscenza tecnologica limitate, e sugli individui con redditi più bassi e con minore accesso al credito [9]. Gli effetti negativi del cambiamento climatico interrompono i mezzi di sussistenza delle comunità, portano ad un aumento dei conflitti sociali, indeboliscono la coesione sociale, aumentano l’incidenza di traumi, malattie, epidemie e morti premature e spingono la migrazione verso le aree urbane e altre regioni, con conseguente graduale abbandono degli ambienti fortemente esposti agli eventi climaticamente avversi. I dati dell’Internal Displacement Monitoring Center rivelano che una media di 26,4 milioni di persone ogni anno sono state costrette a migrare a causa di eventi naturali catastrofici, a partire dal 2008. È interessante notare che il numero dei “rifugiati ambientali” ha superato quello dei rifugiati di guerra, ma la Convenzione di Ginevra riconosce solo i diritti di questi ultimi. La percezione del cambiamento climatico sembra essere più pronunciata nelle aree rurali, con i paesi in via di sviluppo che subiscono principalmente un aumento delle temperature e una riduzione delle precipitazioni. Altre preoccupazioni degne di nota includono l’esaurimento di risorse come acqua ed elettricità, nonché il declino dei servizi pubblici essenziali. Una maggiore percezione del cambiamento climatico è spesso associata ai livelli di reddito, all’età, all’esperienza di vita, all’istruzione e alla disponibilità di informazioni mediante l’accesso ai media. Un effetto negativo significativo del cambiamento climatico è la riduzione del capitale sociale, che comprende la partecipazione della comunità e la coesione sociale. Il capitale sociale si riferisce alle caratteristiche di un’organizzazione sociale, tra cui la fiducia, le norme e le reti che migliorano l’efficienza sociale facilitando azioni coordinate. Questo concetto è espresso sia a livello individuale che comunitario. Alcune osservazioni sono state raccolte in popolazioni specifiche che vivono in regioni come l’Australia e il Canada settentrionale, come gli Inuit. Tuttavia, la ricerca sulle popolazioni ugualmente esposte ai cambiamenti climatici, come quelle dell’Africa centrale, rimane scarsa. Al contrario, lo studio in questione esamina un campione di migranti arrivati ​​in Italia da paesi africani, classificandoli in due gruppi in base alla vulnerabilità dei loro paesi d’origine ai cambiamenti climatici. Gli obiettivi dello studio includono il confronto dei due gruppi per determinare le differenze nella loro percezione del cambiamento climatico, della perdita di capitale sociale e della salute mentale. Inoltre, lo studio si propone di analizzare gli aspetti del cambiamento climatico maggiormente percepiti nell’intero campione, nonché indagare le relazioni tra la percezione del cambiamento climatico, la perdita di capitale sociale e la salute mentale, ed esplorare se variabili come gli anni di scolarizzazione e il luogo di residenza (città o villaggio) influenzano la percezione di questo cambiamento. Le ipotesi suggeriscono che i migranti provenienti da paesi con estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici avranno una maggiore percezione del cambiamento stesso, subiranno una perdita di capitale sociale più significativa e mostreranno una maggiore prevalenza di disturbi emotivi rispetto a quelli provenienti da paesi con minore vulnerabilità. Inoltre, lo studio ipotizza che esista una relazione significativa tra la percezione del cambiamento climatico e la perdita di capitale sociale e tra quest’ultimo e l’entità dei disturbi emotivi. Infine, si è verificato se la percezione del cambiamento climatico sia influenzata dal livello di istruzione.

Secondo i risultati di questo studio, i migranti provenienti da paesi altamente esposti ai cambiamenti climatici percepiscono che la vulnerabilità del proprio Paese è principalmente associata alla riduzione della disponibilità di acqua ed elettricità. In entrambi i gruppi, gli aspetti del cambiamento climatico più fortemente avvertiti sono una maggiore dipendenza dalle forniture alimentari e l’assenza o la riduzione dell’elettricità disponibile. Circa due migranti su tre in entrambi i gruppi hanno notato un aumento del numero di ondate di caldo, un ritardo nella stagione delle piogge, un aumento degli eventi meteorologici estremi e catastrofici e una ridotta disponibilità di acqua potabile. Anche le percezioni relative alla carenza di cibo, alla malnutrizione e allo smaltimento dei rifiuti sono notevoli, ma leggermente inferiori. Il gruppo estremamente vulnerabile segnala una perdita più pronunciata di capitale sociale, in particolare in termini di sicurezza pubblica e partecipazione della comunità. Sorprendentemente, il livello di istruzione non sembra influenzare la capacità di percepire il cambiamento climatico. Nell’intero campione si riscontra una moderata correlazione a livello personale tra la percezione del cambiamento climatico e la perdita di capitale sociale, nonché tra quest’ultimo e i disturbi emotivi. Anche la correlazione tra percezione e disturbi emotivi è significativa ma più debole. Ciò suggerisce che il capitale sociale funge da mediatore tra il cambiamento climatico e la salute mentale, il che implica che le azioni volte a preservare il capitale sociale possono aiutare a mitigare l’impatto del cambiamento climatico sul benessere mentale.

Infine, a dipingere un quadro demografico più generale sugli effetti che il cambiamento climatico potrebbe avere sulla migrazione e sulla salute, ci viene incontro un recente studio dal titolo “Global health, climate change and migration: The need for recognition of “climate refugees”, in cui si asserisce anche che il cambiamento climatico è riconosciuto come la principale minaccia alla salute pubblica per i prossimi decenni, principalmente perché porta a cambiamenti nell’ambiente che provocano lo spostamento delle popolazioni [10]. Nel giugno 2022, il numero globale di sfollati ha raggiunto un picco senza precedenti, superando i 100 milioni di persone. I disastri temporanei, ma legati alle condizioni meteorologiche, sono oggi una delle principali cause di sfollamenti in tutto il mondo. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) riferisce che questi disastri sono stati responsabili di circa 21 milioni di sfollati ogni anno, a partire dal 2008. Negli ultimi 40 anni, il numero di disastri legati al clima è quasi triplicato e la loro frequenza e gravità sono esacerbate dai cambiamenti climatici. Secondo il rapporto della Banca Mondiale intitolato “Groundswell – Preparing for Internal Climate Migration”, se non verranno intraprese azioni rapide a livello nazionale e globale per il clima, regioni come l’Asia meridionale, l’Africa sub-sahariana e l’America Latina potrebbero vedere più di 140 milioni di persone trasferirsi all’interno dei rispettivi paesi entro il 2050 [11]. Si stima che questi numeri aumenteranno in modo significativo nei prossimi decenni, con l’Institute for Economics & Peace (IEP) che prevede fino a 1,2 miliardi di sfollati entro il 2050 a causa di disastri naturali e cambiamenti climatici. I rifugiati climatici, spesso descritti come le “vittime dimenticate del cambiamento climatico”, si trovano ad affrontare questa difficile situazione a causa della mancanza di dati completi sulla loro demografia. Le informazioni disponibili indicano tendenze allarmanti, come l’aumento della popolazione che vive nelle zone costiere ad alto rischio di innalzamento del livello del mare cresciuto da 160 a 260 milioni di individui negli ultimi 30 anni. Inoltre, nove su dieci di questi individui provengono da paesi in via di sviluppo e da piccoli stati insulari. Il Bangladesh fornisce un esempio lampante, dove si prevede che 20 milioni di persone potrebbero perdere le loro case entro il 2050 perché il 17% del paese sarà sommerso a causa dell’innalzamento del livello del mare. La crisi climatica globale sta colpendo le persone e i sistemi sanitari pubblici in quasi tutte le regioni del mondo. Ciò è particolarmente evidente nell’aumento dei casi di malnutrizione dovuti alla siccità e nella maggiore incidenza di malattie trasmesse dall’acqua, come il colera causato dalle inondazioni. Queste sfide pongono ulteriore pressione sui sistemi sanitari già sovraccarichi, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito. I rifugiati e i migranti hanno esigenze sanitarie uniche, legate alla loro esposizione alle condizioni climatiche e ambientali, e la loro vulnerabilità dovrebbe essere presa in considerazione in un approccio globale che copra l’intero processo migratorio. Essi affrontano una serie significativa di rischi per la salute, sia prima, durante che dopo il viaggio. L’accesso alle cure primarie e a un’assistenza sanitaria soddisfacente sono spesso interrotti a causa di fattori quali la migrazione, le limitazioni nella capacità ricettive dei sistemi sanitari e varie barriere di genere, culturali, finanziarie, sociali e linguistiche. Inoltre, potrebbero aggiungersi vari fattori di stress a danno dei migranti, inclusi abusi e sfruttamento. Il termine “rifugiati climatici” è stato utilizzato dagli esperti del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) dal 1985 per descrivere individui che sono stati costretti a lasciare i loro habitat tradizionali temporaneamente o permanentemente a causa di significativi sconvolgimenti ambientali. Tuttavia, a differenza delle persone che fuggono da guerre o persecuzioni, coloro che sono sfollati principalmente a causa dei cambiamenti climatici in genere non possono chiedere asilo per ragioni che siano esclusivamente legate al clima. Il “Global Compact on Safe, Orderly and Regular Migration”, adottato dalla maggior parte degli Stati membri delle Nazioni Unite nel 2018, raccomanda che i governi dei paesi riceventi dovrebbero lavorare sulla protezione dei rifugiati climatici sviluppando piani per il ricollocamento e opzioni di visto, quando l’adattamento e il ritorno nei paesi d’origine non risulta fattibile. Tuttavia, nello stesso anno, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha osservato che molte persone costrette a lasciare le proprie case a causa degli effetti del cambiamento climatico non rientrano nella definizione legale di rifugiato, il che ostacola il loro accesso a determinate tutele dei diritti umani. Questa designazione come “vittime dimenticate dal mondo” può comportare un accesso limitato alle tutele legali e un aumento dei rischi come la deportazione. Nel 2020, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha aggiornato le sue linee guida, sostenendo una più ampia protezione di coloro che si trovano ad affrontare rischi ambientali. Nel 2022, l’Argentina ha introdotto un visto speciale per le persone sfollate a causa di disastri naturali, mentre la Finlandia sta esplorando la possibilità di accettare rifugiati per ragioni legate al clima. L’Australia sta implementando un programma per rendere più facile la migrazione per esigenze di lavoro stagionale agli isolani del Pacifico, una delle popolazioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici, e misure simili sono allo studio in altri paesi. Sebbene sia troppo presto per valutare i risultati di queste iniziative, la loro recente adozione e le discussioni in corso sottolineano una crescente consapevolezza sul tema qui discusso e l’esigenza di riconoscere formalmente lo status di rifugiati climatici, creando percorsi strutturati per la migrazione regolare, insieme a strategie di mitigazione e adattamento. Tutte le parti interessate, in particolare i paesi del Nord del mondo, dovrebbero difendere i diritti umani sostenendo gli sforzi di adattamento e mitigazione e sfruttando il potenziale della migrazione legata al clima. La logica è semplice: il cambiamento climatico, in gran parte guidato dal Nord del mondo, sta costringendo le persone a fuggire, limitando così il loro accesso ai diritti umani fondamentali, compreso il diritto alla salute. Di conseguenza, è responsabilità del Nord del mondo garantire che l’accesso a questi diritti sia mantenuto o ripristinato. Particolare enfasi dovrebbe essere posta nel promuovere una transizione giusta verso economie e società verdi e sostenibili dal punto di vista ambientale (compresa la costruzione di sistemi sanitari resilienti ai cambiamenti climatici), prevenendo e affrontando le vulnerabilità in atto (come iniziative di immunizzazione inclusive) e promuovendo i processi decisionale basati sull’evidenza e raccolta di dati disaggregati per ampliare la cooperazione in favore della salute del clima e delle popolazioni.

Bibliografia

[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/20/temperatura-media-globale-per-la-prima-volta-di-2-gradi-sopra-i-valori-preindustriale-oltre-questa-soglia-catastrofi-imprevedibili/7359270/

[2] https://forbes.it/2023/11/21/oxfam-1-piu-ricco-inquina-cinque-miliardi-persone/

[3] https://www.theguardian.com/business/2023/apr/10/climate-emergency-is-the-biggest-health-crisis-of-our-time-bigger-than-covid

[4] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37933914/

[5] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/36542773/

[6] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33971021/

[7] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/36919356/

[8] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28679398/

[9] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32567564/

[10] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/36960688/

[11] https://www.worldbank.org/en/news/infographic/2018/03/19/groundswell—preparing-for-internal-climate-migration

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